
Quello scatto lì racconta tutto. Non servono parole, didascalie o spiegazioni. Basta fissarlo. Un volto stanco, segnato dal sole e scavato dalla salsedine, la pelle indurita da settimane di fatica e resistenza. Gli occhi, infossati e intensi, fissano l’obiettivo con una strana miscela di determinazione e vulnerabilità, come se cercassero un contatto con chi guarda, quasi una mano tesa attraverso il tempo. Alle sue spalle, un’onda imponente si erge minacciosa, una parete liquida che sembra sul punto di inghiottirlo. È l’ultima immagine conosciuta di Andrew McAuley, l’avventuriero australiano che nel 2007 tenta l’impresa impossibile: attraversare in solitaria, a bordo di un kayak, il Mar di Tasmania, 1.600 chilometri di oceano perennemente inquieto, tra l’Australia e la Nuova Zelanda.
Nato nel 1968 a Goulburn, nel New South Wales, Andrew non è un incosciente, né un improvvisato. Non è neanche uno che cerca la morte per sentirsi vivo. Certo, ci va spesso vicino, questo sì. Ma con ordine, con criterio, con preparazione. Prima di sfidare il Pacifico, ha già salito montagne in Pakistan, camminato tra le nevi della Patagonia, tracciato rotte solitarie tra i fiordi della Nuova Zelanda. Il kayak diventa il suo modo di misurarsi col mondo. Non basta un colpo di testa per decidere di attraversare 1.600 chilometri di distese salate in solitaria, tra l’Australia e la Nuova Zelanda. Serve un piano, e il suo è preciso, dettagliato, quasi maniacale.
Il kayak è lungo sei metri, modificato con una capsula in fibra a poppa, gialla e stondata, come un piccolo sottomarino agganciato sul retro. Lo chiama Casper, come il fantasmino: un po’ per scaramanzia, un po’ perché davvero lì dentro dovrà dormire, sopravvivere alle onde, sperare che tenga. Lo studio dura mesi. L’oceano, però, non legge i manuali.
Parte l’11 gennaio del 2007 dalla Tasmania, senza fanfare, solo con l’ossessione di riuscire dove altri non hanno nemmeno osato. La rotta è tracciata, ma il mare non ha linee dritte. Dopo due settimane di pagaia e silenzi, arriva la tempesta. Resiste. Il 27 gennaio il suo segnale si fa incerto, ma Andrew non molla. Il kayak tiene, lui anche. Scrive alla moglie che domenica sarà a casa, alle nove del mattino. Lo dice come si dicono le cose certe. Come un padre che rientra da un viaggio di lavoro. Il figlio, tre anni appena, lo aspetta. Anche la festa è pronta.
Invece il giorno dopo, alle sette di sera, la sua voce arriva gracchiante alla Guardia Costiera: “Sono in emergenza. Il kayak sta affondando. Sto annegando”. Poi più nulla. Il 10 febbraio il kayak viene trovato. Galleggia ancora, ma senza la capsula, senza il radiofaro, senza Andrew. Le ricerche vanno avanti altri due giorni, poi si fermano. Troppo oceano, troppo tardi. Di lui resta soltanto quella foto scattata in mezzo al nulla, con quella faccia mangiata dal sole che guarda l’obiettivo con una intensità che spiazza. Dietro, un’onda minacciosa sembra già sapere come andrà a finire.
Andrew sapeva rischiare, ma sapeva anche fermarsi. Un mese prima, al primo tentativo, era tornato indietro dopo 48 ore, quando aveva capito che il freddo non gli avrebbe lasciato scampo. “Non era il momento”, aveva detto. Non era vigliaccheria, ma lucidità. Quella che spesso manca a chi vive nell’idea del successo a ogni costo. Lui no. Voleva arrivare, sì, ma non a costo di morire.
Oggi il suo kayak è custodito al Museo Marittimo di Sydney. Sta lì come un cimelio di un’epoca che ancora non è passata, perché ci sono uomini che continuano a voler vedere cosa c’è oltre l’ultima linea d’orizzonte. Andrew era uno di quelli. Aveva trentanove anni, una famiglia, un lavoro normale, una casa qualsiasi. Ma dentro, sentiva crepitare.
Il suo “Ci vediamo domenica alle nove” è rimasto appeso nell’aria, come certi saluti pronunciati senza sapere che saranno gli ultimi. Magari l'appuntamento non era per quella domenica lì. Forse sarà per un’altra, che deve ancora arrivare.