Arte

Resilient, la mostra di Gualazzini che svela l'Africa che preferiamo ignorare

La mostra fotografica del reporter Gualazzini racconta 15 anni di lavoro in Africa. Da martedì 13 dicembre sarà esposta all'Istituto Italiano di Cultura a Praga

Resilient, la mostra di Gualazzini che svela l'Africa che preferiamo ignorare
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Anno 1922, la magnitudo del Secolo breve è al suo apogeo, la storia è pervasa da sconvolgimenti e ideologie, la società è sospesa tra l’inquietudine delle nuove architetture geopolitiche e l’avvenirismo della fede nel progresso. È un anno frenetico, veloce, contraddittorio, rivoluzionario all’interno del quale però la cultura ha un valore assoluto e trasversale; è il viatico dell’uomo per orientarsi nel turbinio degli eventi. È infatti in quell’anno, dal valore di una pietra di inciampo nella nostra contemporaneità, che a Praga viene inaugurato il primo Istituto di Cultura Italiana. Sono passati cent’anni dal taglio del nastro dell’istituzione deputata a far conoscere e promuovere nel mondo lingua, cultura, arti e talenti del Bel Paese e, a distanza di un secolo, oggi, sono ben 85 gli Istituti italiani di Cultura nel mondo e nella capitale della Repubblica Ceca, dal 16 novembre, sono in corso le celebrazioni per il centenario di una realtà che è divenuta sinonimo di eccellenza culturale e genio italico.

Un calendario ricchissimo di eventi quello organizzato per celebrare il centenario dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga alla cui guida oggi c’è Fabrizio Iurlano. Spettacoli teatrali, concerti, esposizioni di artisti di fama internazionale e tra gli ospiti chiamati a partecipare a un evento unico e di assoluta rilevanza per quel che riguarda la rappresentazione del know how italico c’è anche il pluripremiato reporter italiano Marco Gualazzini.

L'esposizione

Da martedì 13 dicembre sino a giovedì 5 gennaio all’interno della cappella e della sala capitolare dell’Istituto Italiano di Cultura sarà visitabile la mostra Resilient che presenta gli scatti realizzati dal fotogiornalista di Parma in 15 anni di lavoro nel continente africano.

Le 53 fotografie, raccolte anche nell’omonimo libro edito da Contrasto, sono il ritratto di un continente prima vissuto e poi raccontato attraverso le storie di uomini, donne e bambini che non fanno la storia perché sono Storia. La Somalia travolta da un’eterna guerra civile, il Congo dove per i minerali, da decenni, si consumano ribellioni e guerriglie e l’ebola falcidia ciclicamente la popolazione, il Ciad stretto nella morsa della desertificazione e del terrorismo jihadista, la Repubblica Centrafricana sprofondata sotto i colpi dell’odio religioso e dei machete. Queste sono solo alcune delle storie fotografate da Marco Gualazzini e che si possono osservare nella mostra.

La maggior parte dei lavori del fotogiornalista di Parma, vincitore di numerosi premi tra cui il Getty Images Grant for Editorial Photography, il PDN e il World Press Photo, sono frutto della lunga collaborazione con InsideOver ed è stato possibile realizzarli grazie al contributo dei lettori del Giornale.it.

L’esposizione è stata promossa dalla Fondazione Eleutheria in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Praga, curata da Francesco Augusto e Ottaviano Maria Razetto. Sul perché del titolo “Resilient”, sono eloquenti le parole dell’imprenditore attivo nel settore della cultura e collezionista d’arte Giampaolo Cagnin nell’introduzione dell’opera di Gualazzini: “Sono persone resilienti quelle che coinvolte in circostanze avverse riescono- nonostante tutto- a fronteggiare costruttivamente la contrarietà, a dare nuova linfa vitale alla propria esistenza e perfino a trasformare l’avversità in modo positivo. Era bene ricordare cosa fosse questa resilienza, per capire quanto e perché il titolo che Marco Gualazzini ha voluto sia il migliore possibile e il migliore in assoluto. Gualazzini ci porta in quell’Africa che preferiamo ignorare, cancellare dalla nostra conoscenza e coscienza, ci mostra occhi che non vorremmo incrociare, situazioni che non possiamo immaginare, realtà che vorremmo non ci riguardassero e che scompaiono al nostro cuore perché lontane. Ma lontane lo sono sempre meno e queste foto hanno un grande merito- fra gli altri- quello di avvicinare la nostra sensibilità al destino misero di questi, bambini, uomini e donne e di sollevare una riflessione sulla nostra vita pulita e privilegiata della quale sempre ci lamentiamo”.

Questa di Praga per Gualazzini è la seconda mostra in un Istituto Italiano di Cultura, la prima è stata a Dakar nel 2020 commissionata dalla direttrice Cristina Di Giorgio, la quale ha inaugurato l’Istituto nella capitale senegalese. E in merito all’interesse nei confronti del continente africano da parte delle istituzioni italiane, l’autore si è così espresso: “L’Ambasciatore italiano in Repubblica Ceca Mauro Marsili che, per il centenario dell’Istituto Italiano di Cultura, patrocina questa mostra dedicata all’Africa rivela una sensibilità e un’attenzione encomiabili e fuori dall’ordinario nei confronti del continente africano. E’ un gesto contro corrente che infrange gli stereotipi del disinteresse nei riguardi di ciò che avviene nei Paesi africani e che riporta al centro dell’attenzione collettiva, e anche delle nostre coscienze, le storie e le sofferenze di centinaia di migliaia di persone che vivono tra il Corno d’Africa e il Golfo di Guinea, tra il Sahel e il Nord Kivu. Il coinvolgimento professionale e personale nei confronti dell’Africa è sempre più manifesto nell’operato delle rappresentanze diplomatiche italiane. L’Ambasciatore italiano in Somalia Alberto Vecchi ha dato vita a Radio Mogadiscio, emittente radiofonica che, in un Paese travolto ancora dall’analfabetismo, fa un lavoro straordinario informando la popolazione con notiziari in italiano e in somalo. E poi è doveroso ricordare l’Ambasciatore Luca Attanasio che il suo impegno per l’Africa l’ha pagato con la vita”.

Il valore di un sacrificio

Il 22 febbraio 2021, lungo la direttrice che collega Goma, il capoluogo del Nord Kivu, con la città di Rutshuru, in un agguato, è stato ucciso l’ambasciatore Luca Attanasio. Poche ore dopo la tragedia una foto straziante e struggente immortalante gli estremi aneliti del diplomatico italiano ha iniziato a circolare sul web e per il reporter Gualazzini quell’immagine è stata latrice di un interrogativo esistenziale: “perché morire innocenti facendo del bene? A cosa è servito quel sacrificio dal valore di martirio?”.

Una domanda che può sorgere unicamente in chi, avendo scelto di votarsi a narrare il dolore dell’altro, ha anche accettato di infettarsi di questo e farsi così carico di quel debito morale che si matura nei confronti di chi dona la sua tragedia affinché questa divenga immagine e verbo di speranza e non dannazione. “Quando vidi quella fotografia mi percorse un fremito: mi chiesi come fosse possibile che un uomo, mio coetaneo, in un luogo in cui ero stato svariate volte, potesse perdere la vita quando il suo fine era aiutare gli altri. Quale era il significato di questo sacrificio cristologico?”. Domande che hanno spinto Gualazzini a ritornare in Congo per incontrare chi conosceva l’ambasciatore italiano, visitare il luogo dove si consumò il delitto e cercare una risposta a quegli interrogativi escatologi concreti, necessari e preziosi in quanto estremamente rari: “A seguito dell’omicidio dell’ambasciatore Attanasio i media di tutto il mondo hanno parlato del Congo e dei problemi che lo attanagliano e ciò mi ha fatto pensare che, in qualche modo, l’ambasciatore italiano, che amava quella terra con tutto sé stesso, si sia donato a lei in modo totalizzante persino nell’estremo momento, poiché la tragedia che l’ha investito ha fatto sì che i problemi dell’Africa ritornassero ad essere al centro delle attenzioni e discussioni planetarie”. Proseguendo Marco Gualazzini ha poi raccontato: “Ho pianificato il rientro dal Congo a inizio febbraio 2022 in modo tale che il reportage potesse essere pubblicato il giorno dell’anniversario dell’agguato, l’ho ritenuto un gesto di rispetto nei confronti dell’ambasciatore. Due giorni dopo però è scoppiata la guerra in Ucraina, il Congo e la storia dell’ambasciatore Luca Attanasio sono stati fagocitati dalla guerra in Europa e per me constatare che un dramma a distanza ravvicinata goda di una prelazione del dolore e possa uccidere, per una seconda volta, un ambasciatore italiano che ha perso la vita mentre si impegnava per il popolo congolese, è stato destabilizzante e foriero di ulteriori domande”.

Scatti che immortalano l'immateriale

Come fare quindi a non cadere nell’accettazione dell’indifferenza? Nel fatalismo della rassegnazione? Nel cinico paradigma per cui la lontananza fisica dall’altro legittimi un’imperturbabilità al suo dolore? “Quando andai in Congo a seguire l’epidemia di Ebola venni ospitato dai missionari comboniani. E c’era un padre missionario che si prese cura di me accogliendomi sempre: padre Ivan Cremonesi. Ogni sera mi attendeva per cenare insieme e, sebbene durante la giornata fossi stato negli ospedali o accanto agli ammalati, non mi escluse mai e non mostrò mai preoccupazione nei confronti miei e di ciò che stavo facendo. L’ultima volta che andai in Congo lo incontrai di nuovo e anche se era ammalato mi diede comunque ospitalità e l’ospitalità in Africa è tutto: è protezione, è sicurezza, è vita. Pochi giorni dopo il mio rientro in Italia venni informato che padre Ivan era morto e ancora una volta quest’uomo si era prodigato per me e ha atteso che fossi al sicuro prima di lasciarci e chiudere gli occhi.”

Parole che da sole danno risposta alla domanda perché l’Africa, una terra dove vi si trova l’essenza del tutto; del male ma anche del bene più totalizzante quello di chi, come padre Ivan, e l’ambasciatore Luca Attanasio, hanno votato sé stessi agli altri, non per selfie, gloria o denaro ma per il bene del prossimo.

E le tracce di sensibilità e dedizione lasciate da questi uomini sono state raccolte come un’eredità immateriale da Marco Gualazzini che ce le ripropone infatti nei suoi scatti che, pur immortalando l’orrore, non cedono mai alla tentazione della condanna esiziale ma ci insegnano invece che un bombardiere Antonov in Sud Sudan o un mortaio in Congo possono divenire attrezzi di un immaginifico parco giochi per bambini e mantengono così viva quell’utopia che coltiva la speranza che un domani le cose possano essere migliori: la resilienza appunto; Resilient.

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