Siamo agli sgoccioli del 1998, quando da un cassetto del Centro Stile Alfa Romeo salta fuori un progetto chiave per sostituire l’Alfa 164, la prima ammiraglia nata durante il corso inaugurato sotto l’ala della Fiat. Per sostituire un modello così rilevante, in grado di raccogliere fragorosi consensi per oltre un decennio, serve qualcosa di dirompente. In quel periodo, poi, il Biscione è tornato a far parlare di sé in modo più che positivo, grazie a un’altra berlina moderna e accattivante, che si chiama 156, disegnata dallo stregone del design, Walter de Silva.
Quando i rumors diventano certezze, il mondo aspetta con trepidante attesa la rivelazione del nuovo berlinone, sfregandosi le mani. Una volta tolto il velo, tuttavia, una discreta parte del popolo degli alfisti rimane un po' deluso alla vista della nuova Alfa 166 perché, se da una parte riesce a colpire per la sua plastica eleganza, dall’altra la sportività appare un po’ troppo tiepida. Lo stesso de Silva ebbe modo di dire, molto tempo dopo, che il progetto originale era molto più bello e affascinante di quello poi approvato, a tal punto che il Gruppo Fiat fu costretto a bocciarlo perché avrebbe oscurato eccessivamente la Lancia K, altra ammiraglia della galassia che altrimenti sarebbe stata cannibalizzata dal modello con l’effige del Biscione visconteo.
Un musetto poco sportivo
L’Alfa 166 fa discutere ma ha delle ottime carte da giocare nel segmento E, quello delle berline di rappresentanza, anche al cospetto dei mostri sacri di Germania. La silhouette dell’ammiraglia italiana porta la forma a cuneo alla sua massima estremizzazione, con un frontale basso e schiacciato a terra e una coda alta, piuttosto massiccia. Questa soluzione riduce al minimo la resistenza aerodinamica, il che si traduce in un comportamento stradale più dinamico, oltre ad abbassare sensibilmente i consumi. Il peccato originale della 166 risiede nel suo volto, che fa storcere il naso a più di un alfista, a causa di quei gruppi ottici troppi piccoli e distanziati, incapaci di infondere l’aggressività tipica del marchio.
Al di là di questo fattore, il risultato complessivo è più che egregio, infatti la presenza scenica è forte, solenne e un po’ malinconica, che si addice perfettamente a questo genere di veicolo. Sobrietà, discrezione e mesta eleganza sono le parole chiave. Eppure, sotto certi aspetti il gruppo di de Silva è stato in grado di aggiungere alcuni dettagli avanguardisti per l’epoca, a partire dallo sviluppo orizzontale dei gruppi ottici posteriori. Una ventata d’aria fresca per il finire degli anni ’90 del secolo scorso.
Meccanica raffinata e motori Alfa Romeo
Sotto al vestito l’Alfa 166 nasconde una meccanica raffinata. Il telaio deriva da quello della Lancia K, ma il comparto sospensioni è di primissimo livello: all’anteriore schema a quadrilatero alto, mentre al posteriore fa la sua comparsa un Multilink evoluto che consente persino una lieve autosterzatura. Il tutto si traduce con un comportamento su strada sincero e coinvolgente, che riduce al minimo i limiti imposti dalla trazione anteriore. L’ammiraglia del biscione è una vera berlina sportiva, come vuole la tradizione.
A corredo di questo ammaliante pacchetto ci sono dei motori benzina rombanti e furiosi, tutti discendenti dalla raffinata casa di Arese: 2.0 Twin Spark 16V da 155 CV, 2,5 litri V6 da 190 CV, 2.0 V6 Turbo da 205 CV e 3.0 V6 da 226 CV. Con quest’ultimo, il mitico “tremila” Busso, l’italiana viaggia alla velocità massima di 243 km/h, issandosi davanti a tutti nella categoria delle berline 3 litri. È la più veloce del pianeta. Sulla 166 debutta anche il 2.4 turbodiesel common-rail da 136 CV, evoluto poi in 140 e 150 CV, una volta subentrata la normativa Euro 3.
Un restyling di metà carriera
Al Salone di Francoforte del 2003 debutta il restyling dell’Alfa 166, che si concentra soprattutto sul frontale, dove compare uno scudetto più ampio e massiccio, oltre a dei fanali più grandi e affilati. Il peccato originale della versione di cinque anni prima viene finalmente cancellato. Adesso la 166 ha quell’aggressività che in tanti si auguravano di vedere fin dal debutto. Le dotazioni, invece, rimangono ricche e abbondanti, con strumenti e tecnologie di alto lignaggio. Il mercato, tuttavia, non sembra premiarla abbastanza, vuoi perché gli automobilisti iniziano a flirtare sempre più con i SUV, che cominciano in quel periodo la loro sempre più forte penetrazione nella scena automotive, e perché i piani alti del Gruppo non credono abbastanza in questa ammiraglia, che viene praticamente abbandonata a sé stessa fino alla fine dei suoi giorni, senza ricevere aggiornamenti utili per rimanere al passo della concorrenza.
Un vuoto non colmato
L’Alfa 166 resta in produzione fino al 2007, con le ultime giacenze smaltite l’anno successivo. Si congeda dalla scena con circa 100.000 esemplari prodotti in quasi dieci anni, tra gli stabilimenti di Rivalta e Mirafiori. Da allora il segmento delle berline di rappresentanza non ha avuto più un modello del Biscione da annoverare, lasciando un vuoto incolmabile. Nel corso degli anni si è vociferato più volte di un’erede della 166, senza però dare seguito alle voci. Almeno finora.
Il dato curioso è che comunque l’ammiraglia milanese ha trovato una seconda vita in Cina, dato che il suo telaio e i suoi motori sono stati trapiantati nella Trumpchi GA5. Il costruttore orientale avrebbe voluto utilizzare anche il design della 166, ma l’allora Gruppo Fiat disse categoricamente di no.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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