Cultura e Spettacoli

Chicago inventò la Borsa (grandi speculatori inclusi)

Finalmente tradotto Frank Norris, il maestro del romanzo Usa. Nella sua trilogia, il presagio della crisi di oggi

Chicago inventò la Borsa (grandi speculatori inclusi)

Partiamo dai fianchi: Erich von Stroheim. Vita ai limiti dell’immaginabile, un regista tra i più grandi e catastrofici di Hollywood. Lo avete già visto: è il tarchiato maggiordomo con il viso da folle che onora la divina Gloria Swanson nel capolavoro di Billy Wilder, Viale del tramonto (1950). Nel 1924 Von Stroheim termina il suo film più grande e allucinato, «nel quale il fatalismo sociale ed esistenziale assume toni parossistici e senza speranza e dipinge un’umanità poco al di sopra del livello bestiale» (Paolo Mereghetti). Dura nove ore, poi ridotto a sette, poi a quattro, infine ai cento minuti attuali per cause di forza contrattuale maggiore (i manager della Mgm), con una spesa mastodontica di 470mila dollari di allora. Il film, che toglie a Von Stroheim ogni altra speranza di una grand opéra in salsa hollywoodiana, s’intitola Greed (in italiano Rapacità) ed è tratto da un libro di Frank Norris (1870-1902), che in realtà s’intitola McTeague, edito nel 1899. Il prossimo autunno uscirà per le Edizioni Medusa.

Arriviamo al centro: Frank Norris. Non poteva non piacere a quel pazzo di Von Stroheim (che asseconda il romanzo fin nei dettagli, nelle allucinate minuzie): vita svagata e spudoratamente americana, figlio di un uomo d’affari che «si è fatto da sé» e di un’attrice (la coppia divorzierà quando Frank è un ragazzino), una tappa a Londra, una manciata di anni a Parigi, dove si applica nella pittura, ma soprattutto incontra Émile Zola, il suo San Pietro, quello che gli apre le porte del Paradiso letterario. Tornato negli States, continua gli studi a Berkeley, pubblica un poemetto in cui si respira l’aria del ciclo arturiano bretone (Yvernelle, del 1892), come tutti i buoni americani in cerca di fama si dà al giornalismo. Parte come corrispondente di guerra per il San Francisco Wave descrivendo la guerra anglo-boera in Sudafrica (1895-96); per il McClure’s Magazine racconta la guerra ispano-americana a Cuba (1898). Il tempo stringe: nel 1900 Frank si sposa con Jeanette Black, l’anno dopo diventa padre, nel 1902, a 32 anni, muore a San Francisco per un’appendicite fulminante complicata in peritonite. La sua opera più grande è un ciclo romanzesco globalmente incompiuto, L’epica del Grano, costituito da tre volumi, di cui The Pit (1903) pare il maggiore. Il romanzo, in libreria dal 29 giugno, è pubblicato dalle Edizioni Medusa (rieccoli) con il titolo Chicago (pagg. 336, euro 17,5), narra la vertigine della città, lo strepito del capitalismo, mescolando il naturalismo di Zola alla naturalezza dei dialoghi di Mark Twain, saldando il tutto con le teorie del «darwinismo sociale» (Norris scopre Darwin a Berkeley, ed è un pugno in faccia, una rivelazione). La storia specifica di Curtis Jadwin, ossessionato dal denaro, è secondaria rispetto alla vita della Borsa, «un grande gorgo, un pozzo d’acque ruggenti, vorticose e tonanti» inteso «a risucchiare le maree vitali della città, a risucchiarle come nella bocca di una tremenda cloaca, nelle fauci di una fogna colossale». Al cospetto della Borsa, il «vasto flusso Titanico» che scorre «lasciando Morte e Rovina sulla sua scia», gli uomini non sono che «meri detriti nella corrente». Il flusso violento del denaro, le oscillazioni della Borsa, «nera, monolitica, accucciata sulle sue fondazioni come una sfinge mostruosa e cieca, silente, grave», sono l’abisso degli inferi, il Flegetonte e il Cocito, il deretano di Satana. La grandezza di Norris è quella di compenetrare e comprimere il realismo più schietto con l’epica, con tratti grandiosi e tonanti, che ricordano un po’ le pagine gravi di Herman Melville.

Ma, appunto, quanto è grande Norris? Sicuramente il romanzo è, come dicono i gonzi, «di stringente attualità», lo ammettono anche i curatori, Cristiano Casalini e Luana Salvarani, nella postfazione (le speculazioni del grano ai tempi di Norris ricordano le «medesime manovre e speculazioni che oggi toccano al petrolio e ai prodotti finanziari»; d'altra parte il romanzo è detto «profetico e storico»). La scheda di presentazione, poi, urla ai quattro venti che Chicago parla della «metropoli di Obama», e che Norris è «il padre letterario di Steinbeck, Faulkner e Dos Passos». I curatori vanno oltre: per fortuna Norris è dotato di «un vivace umorismo da collage inglese», che «distingue il grande padre Norris da tutti i suoi perfetti, seriosi, a volte imbronciati eredi: Steinbeck, Faulkner, giù giù fino a Don de Lillo, e prima di lui Dos Passos». Faulkner «imbronciato»? La grandezza di costui - ma anche dell’epica cruda di Steinbeck - è proprio nell’assenza d'ironia, vecchio archibugio ottocentesco (nel Novecento non c’è più nulla da ridere), e nella sua cupa, delirante furia eschilea, che va fino al fondo della tenebra. D'altra parte, «il grande padre» di Faulkner non è Norris ma Sherwood Anderson.
Detto questo: fortunatamente qualcuno riporta sul palco Norris, oggetto dimenticato dall’editoria italica (esistono in traduzione, ma fuori commercio, soltanto McTeague, pubblicato da Neri Pozza nel 1965, e i romanzi minori e «alla Stevenson», Gli schiumatori del mare e Le tre cornacchie nere, stampati da Sonzogno nel 1930). Per fare chiarezza basta guardare cosa si muove tra i coetanei di Norris. In prima fila c’è Jack London, poi Theodor Dreiser e Upton Sinclair, un tempo di moda in Italia, c’è Hamlin Garland e soprattutto Stephen Crane a cui è lecito paragonare Norris. Quasi coscritti, stessa vita spericolata, stessa carriera da reporter di guerra (e sugli stessi campi di battaglia), Crane, considerato il padre di Ernest Hemingway (se credete al giochino dei padri e dei figliastri), è uno scrittore spudoratamente «impressionista» (basta leggere il suo libro più celebre, Il segno rosso del coraggio, del 1894), mentre Norris è epicamente verista.

Confrontate e date il vostro giudizio. Norris è una bella scoperta e non mi levo dalla testa che fosse una specie di Giovanni Verga, se Verga non si fosse mosso da Milano e al posto del Ciclo dei Vinti avesse architettato il Ciclo dei Bauscia.

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