Cia-gate, Rove a rischio Bush promette: «Via chi ha commesso reati»

Sempre più gravi le accuse contro il superconsigliere, che si aggrappa a un cavillo giuridico per sopravvivere allo scandalo

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

George Bush ha ritirato fuori, dopo oltre due anni, una promessa a lungo poi dimenticata se non rinnegata: «Se qualcuno ha commesso un reato non lavorerà più nella mia amministrazione». Il «qualcuno» potrebbe avere un nome famoso: Karl Rove, numero due nello staff della Casa Bianca, maestro delle campagne elettorali e di opinione pubblica, l’uomo che lo stesso presidente ha definito «il mio ragazzo prodigio». Da qualche tempo Rove è coinvolto personalmente nel vortice dell’inchiesta.
La vicenda, ormai nota, è quella di un diplomatico in pensione, Joseph Wilson che fu incaricato da qualcuno nella Cia di indagare sugli acquisti di uranio che Saddam Hussein avrebbe compiuto per nutrire il suo progetto nucleare. Wilson andò, indagò e riferì che non c’era niente di vero. Siccome non lo ascoltavano, cominciò a spiegare che a parer suo l’intera vicenda era una montatura allo scopo di trovare un pretesto in più per giustificare la guerra all’Irak che la Casa Bianca aveva deciso da tempo. Poco dopo un columnist conservatore rivelò a sua volta che a spedire Wilson nel Niger era stata in realtà sua moglie, che lavorava alla Cia. Venne così fuori il nome della donna, Valerie Plame, che doveva essere coperto dall'anonimato come tutti coloro che lavorano attivamente nello spionaggio. Rivelarne le identità è, secondo la legge americana, un reato, perché mette a rischio personale l’agente.
L’inchiesta nacque e si trascinò, fino a che un magistrato «ricattò» due giornalisti coinvolti nella propalazione del nome e uno di essi, un redattore di Time, Matthew Cooper, per evitare di finire in carcere per «ostruzione di giustizia» fece il nome: Karl Rove. E ieri egli lo ha ribadito in un’intervista televisiva, raccontando di una telefonata in cui l’alto funzionario della Casa Bianca gli disse: «È stata la moglie». E poi aggiunge: «Ho già parlato anche troppo». E a questo punto Bush non ha potuto fare a meno di intervenire e ha colto l’occasione di una conferenza stampa convocata per la visita del Primo ministro indiano Manmohan Singh per rassicurare la nazione che non guarderà in faccia a nessuno; implicitamente, dunque, neppure a Karl Rove. E tuttavia il presidente ha messo le mani avanti specificando «se qualcuno ha commesso un reato».
La nuova linea di difesa di Rove è infatti questa: è vero che ha parlato con alcuni giornalisti della moglie di Wilson, ma non ne ha fatto il nome e quindi sul piano legale sarebbe a posto. Un dettaglio che potrebbe salvarlo in tribunale, ma è insufficiente sul piano politico, perché è evidente che ogni cronista in casi del genere si informa sulle generalità di questa consorte e viene fuori un nome che senza le parole di Rove sarebbe rimasto al coperto.
Trattandosi poi di un tema così scottante come la «guerra al terrore», sembra evidente che i rischi per la Plame o per ogni suo collega in situazione analoga erano maggiori del solito e il segreto avrebbe dovuto essere custodito più gelosamente che mai. È la tesi avanzata dal marito (che è sempre stato un repubblicano) e, naturalmente, dall’opposizione democratica, che è balzata sull’occasione per vendicarsi dei «maltrattamenti», e soprattutto delle sconfitte, patite per mano di Rove. Il leader dell’opposizione alla Camera, Nancy Pelosi, ha chiesto al Congresso di aprire un’investigazione. John Podesta, capo di gabinetto della Casa Bianca ai tempi di Clinton, ha detto che «la credibilità di Rove è ridotta ormai a brandelli». Il segretario del Comitato nazionale democratico Howard Dean, ha alzato il tiro sul presidente che «avrebbe perso molta credibilità». E i sondaggi indicano che tre americani su quattro non credono alle parole di Rove e che anche l’opinione «morale» su Bush è caduta negli ultimi tempi: un sondaggio del Wall Street Journal riferisce che il presidente è ritenuto «onesto e veritiero» da 41 cittadini su cento.

Il quarantacinque per cento è di opinione contraria.
Cifre che danno la misura dell’imbarazzo in cui si trova il capo della Casa Bianca di fronte alla scelta fra «scaricare» un collaboratore diventato impopolare e ricambiare fino in fondo la sua comprovata lealtà.

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