Cultura e Spettacoli

"In Cina repressione continua Allora io voglio essere europeo"

Così racconta Gao Xingjian, lo scrittore Premio Nobel che il regime comunista ha dichiarato "persona non grata". Dal 1988 vive in Francia. "Dietro la muraglia nulla cambia, non c'è spazio per l'uomo"

"In Cina repressione continua  
Allora io voglio essere europeo"

Ci sono uomini cui è concessa più di una vita. Il Nobel per la letteratura Gao Xingjian se ne è già prese tre. La sua prima vita è stata in Cina, dove è nato, a Ganzhou, nel 1940. Vide la morte di Mao e la fine della rivoluzione. Terminò i suoi primi manoscritti, nascosti allora e vietati oggi, e durante il periodo di rieducazione in campagna li sotterrò, per l’autocensura cui si piegava. E infine lasciò il suo Paese nel 1987, appena prima del massacro di piazza Tien An Men, cui assistette come esule politico a Parigi e dopo il quale si dimise dal Partito Comunista Cinese.

E fu esilio la sua seconda vita. Alla soglia dei cinquant’anni, lavorò come avrebbe fatto una giovane promessa dell’arte. Scrisse per la letteratura - La montagna dell’anima (appena ristampato per BUR, pagg. 640, euro 10,80) stampata a Taiwan in duemila copie, di cui cento comprate da Gao per gli amici - ma anche per il teatro - oltre 70 opere prodotte dalla fine degli anni Ottanta ad oggi - e soprattutto dipinse - oltre 60 le personali - per rifarsi del mancato riconoscimento, nel suo paese d’origine, di questo suo talento straordinario («Occorreva essere membro dell’Associazione degli Artisti Ufficiali»).

Lavorò per dodici anni, senza un fine settimana, senza mai una vacanza. Lavorò per rifiutare le promesse del mercato e imporre le proprie. E per ogni compromesso mancato, giunse un riconoscimento. Fino a quello che segnò il confine con la sua terza vita: il Premio Nobel, nel 2000. Per quel premio Gao si ammalò. Fu la celebrità a farlo ammalare, la pressione commerciale che lo voleva «intellettuale prêt-à-porter». Resistere gli costò un attacco, due operazioni, ma si riprese. E appena si riprese gli inviti a mostrarsi come icona della cultura ricominciarono. Oggi Gao Xingjian è un profeta della riflessione solitaria, un eremita in perenne ricerca espressiva attraverso quella che considera l’unica forma di comunicazione universale: le arti.

Monsieur Gao, chi è lei oggi?
«Qualcuno direbbe un cittadino del mondo. Il tempo dell’esilio è finito. Oggi le mie opere appartengono a tutti. La mia vita è una perenne attività senza frontiere. Con la pittura, la danza, il cinema parlo a tutto il mondo».

Il suo ultimo film, Après le déluge, è appunto un tentativo di creare un’opera d’arte che non necessita di traduzioni.
«Il film è molto particolare. Forse non è nemmeno un film, ma un genere inclassificabile. Di certo non ne esiste uno uguale. È poesia senza narrazione. Gli attori e ballerini recitano e danzano sullo sfondo di quadri che rappresentano la fine del mondo. Sì, proprio il tema biblico, che tuttavia è anche un tema contemporaneo e universale. Non ci sono dialoghi, ma soltanto i suoni della natura: la terra che trema, la pioggia che scende a dirotto. E tutto diviene a mano a mano più astratto, fino a che il sentimento dominante, l’angoscia per la catastrofe, prevale. Insieme al silenzio».

I suoi romanzi non sembrano appartenere alla letteratura cinese, ma alla letteratura mondiale. Come ha fatto ad ottenere questo risultato?
«Far partecipe il lettore del momento storico non è importante per me. Io non sono il portavoce dell’esotismo del mio popolo né il suo salvatore. Quel che voglio è toccare le condizioni essenziali dell’esistenza, le vere sensazioni umane».

Dice di vivere “senza compromessi”. Ha il sapore di una retriva battaglia contro il mercato...
«Combattere il mercato è inutile. Il mercato è dappertutto. E l’uomo è così piccolo: non può opporvi resistenza».

Qual è la missione della sua terza vita, dunque?
«Non lasciarsi influenzare. Danza, cinema, pittura diventano artificiali e insensate quando sono create per divenire commerciali. Dentro di me ho la forza per scegliere che non accada».

Non ha mai paura? Che tutta questa resistenza la porti un giorno a rimanere senza un pubblico?
«Mi è costata troppo cara la libertà che ho conquistato fuggendo dalla Cina. Solo ora che vivo in una società democratica posso esprimere ciò che desidero. In Cina era impossibile. Quindi non ho intenzione di rinunciare a scrivere o rappresentare ciò che voglio, senza ritocchi. Questo devo difendere, a qualsiasi costo: tutto il resto non mi fa nessuna paura».

La Cina oggi dice al mondo di non essere più quella di allora. Lei è d’accordo?
«La Cina è un Paese grande».

Detto all’occidentale?
«Se oggi tornassi a Pechino, non la riconoscerei, questo è certo. Hanno fatto tabula rasa di ciò che erano le città. Ma nell’uomo non vedo progressi. Nell’uomo, in Cina, nulla è cambiato».

Lei pensa che oggi Tien An Men potrebbe accadere di nuovo?
«Vent’anni fa ho scritto una tragedia, La fuga, che oggi va in scena anche in Italia. Parla della difficoltà dell’uomo di comunicare con l’altro e soprattutto con se stesso. Non ci sono riferimenti politici, non si nomina Tien An Men, eppure è per questa che sono stato dichiarato “persona non grata” in Cina. La repressione di sangue è sempre attuale, come la tragedia greca».

Che ricordi ha di quei giorni, che posto occupa la Cina nella sua arte?
«I ricordi li ho messi tutti nei libri. Un artista deve aspirare alla vita vera, altrimenti è ossessione. Non ho alcun motivo di tornare a quelle tristezze, la Cina è molto lontana dal mio lavoro. Mi interessa di più l’Europa».

Si sente europeo?
«Mi interesso di come l’Europa possa conquistare una nuova forma di pensiero da proporre al mondo. Gli europei hanno creato il pensiero moderno e oggi devono tornare pionieri. La storia non si cambia più con le rivoluzioni, ma con il rispetto del patrimonio e il rinnovamento delle menti. Viviamo nell’ombra e all’ombra del ventesimo secolo. Dobbiamo invece ritrovare la freschezza dell’avvenire. Questo compito spetta ad intellettuali e artisti, come me».

Ha già avuto qualche intuizione?
«Una delle novità potrebbe essere la sistematizzazione di un

pensiero filosofico femminile. L’emancipazione della donna ha avuto per troppo tempo un significato politico. Ma il femminile non deve essere più il femminismo. Ecco la nuova domanda: esiste una visione del mondo femminile?».

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