Scena del crimine

Il quadro, le impronte e la bottiglia: "Il conte aprì al killer in accappatoio"

Da oltre 25 anni l’omicidio del conte Alvise Nicolis Di Robilant è avvolto nel mistero. Il nobile fiorentino venne ucciso la sera del 16 gennaio 1997 con dieci colpi alla testa. Diverse le piste battute dagli inquirenti, il colpevole non venne mai trovato

Il quadro, le impronte e la bottiglia: "Il conte aprì al killer in accappatoio"
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A Firenze era una fredda sera di gennaio del 1997. Le note di un pianoforte volavano leggere tra le vie del centro, mentre un gruppo di nobili fiorentini stava iniziando a cenare al Circolo dell’Unione, uno dei club più esclusivi della città. Proprio nelle stesse ore, nel suo appartamento a Palazzo Rucellai, veniva ucciso il conte Alvise Nicolis di Robilant. "Un delitto che farà sentire la sua eco in tutto il jet set internazionale", anticipava l’Unità il giorno dopo la morte del conte. Diverse le piste battute dagli inquirenti, da quella dell’antiquariato clandestino, fino a quella dell’omosessualità e dell’amore passionale. Ma tutte si rivelarono un vicolo cieco. E, dopo decenni, il caso della morte del conte di Robilant rimane un mistero irrisolto.

"Gli investigatori dell'epoca presero in considerazione diverse possibilità. Di certo non giocò a favore delle indagini l'assenza di tracce evidenti dell'assassino sulla scena del crimine. Non solo: anche l'arma del delitto - un oggetto contundente - non è mai stata ritrovata", spiega a ilGiornale.it il giornalista di Panorama e scrittore Antonio Rossitto, autore del libro "Sangue blu. Delitti e misteri dell’alta società italiana".

Il conte Alvise Di Robilant

La sera del 16 gennaio 1997, il conte Alvise Nicolis Di Robilant era atteso al Circolo dell’Unione, dove si radunavano i nobili fiorentini. Alle 20.30 infatti era prevista una cena, durante la quale sarebbero stati presentati i nuovi soci. Il conte aveva assicurato la sua presenza. Ma la sua sedia rimase vuota. Parve strano a tutti che il conte fosse mancato a una serata così importante e che, cosa ancora più singolare, non avesse chiamato per disdire la sua prenotazione.

Alvise Di Robilant era nato a Bologna nel 1925. Secondo il racconto fatto ai tempi da Repubblica, il conte, conosciuto da tutti a Firenze e definito "un vero gentiluomo pieno di charme", apparteneva a una prestigiosa famiglia della nobiltà veneziana. Aveva lavorato nel campo dell’arte e per alcuni anni era stato amministratore della sede fiorentina della casa d’aste Sotheby’s. Poi, da quando Londra aveva chiuso la sede fiorentina, il conte aveva continuato a rimanere in quel mondo come esperto.

"Alvise di Robilant era un uomo riservato, amico di molti aristocratici fiorentini e imprenditori - aggiunge Rossitto - Tant'è che al suo funerale parteciparono alcune personalità di spicco del jet-set italiano. Ed è il motivo per cui la sua morte, oltre al fatto che fosse avvenuta in circostanze drammatiche, suscitò grande clamore mediatico".

Omicidio nella nobiltà

Il motivo della sua assenza alla cena al Circolo dell’Unione venne alla luce il giorno seguente. Erano circa le 16.30 del 17 gennaio 1997. Rosa Ingrisei, moglie del portiere di palazzo Rucellai, salì le scale fino all’appartamento del conte, dove si recava settimanalmente per fare le pulizie. Una volta arrivata, vide che la porta era stata lasciata aperta, ma non si stupì: succedeva spesso e lei ci aveva fatto l’abitudine. Più strano le sembrò il fatto che il conte avesse lasciato anche le luci accese, ma la donna continuò ad avanzare nel corridoio dell’appartamento.

Fino a quando, nel salotto, vide disteso ai piedi del divano e avvolto in un leggero copriletto il corpo senza vita di Alvise Di Robilant. Sotto la testa si estendeva una grossa macchia di sangue, di cui erano sporchi anche i muri, il divano, la televisione e una tenda. Il conte Di Robilant era stato ucciso.

Come riporta Valentina Rossi nel libro "I delitti di Firenze", l’autopsia rivelò che "le caratteristiche del corpo contundente - con cui venne colpito il conte - sono mal definibili, ma esso deve presentare almeno una porzione rotondeggiante, o a spigolo, della lunghezza di circa 5-6 cm, oltre a essere dotato verosimilmente di un angolo vivo". Dall’appartamento mancava solamente un’anatra di vetro, ma gli inquirenti ritennero che la suppellettile non potesse essere l’arma del delitto, che identificarono invece come un oggetto lungo, probabilmente di metallo. Gli inquirenti non riuscirono mai a risalire allo strumento utilizzato per uccidere il conte Di Robilant.

L’Unità rivelò anche che, secondo l’autopsia, "i primi colpi vennero vibrati sulla fronte e poi, quando il conte era accasciato per terra tramortito, sono state sferrate le ultime botte mortali sulla nuca". Quasi certamente, il conte non fece in tempo nemmeno a difendersi: "il cadavere presentava lievissime lesioni di difesa, soltanto qualche livido sulle spalle e sulle braccia. L’assassino deve aver alzato il corpo contundente senza che di Robilant se ne sia accorto".

Quegli oggetti legati da un mistero

Quando i carabinieri arrivarono nell’appartamento si trovarono di fronte una confusione quasi irreale. I cassetti infatti erano alla rinfusa, una lampada del soggiorno era rovesciata a terra, ma qualcosa non tornava: poco distante dal corpo del conte, una pila precaria di libri era rimasta in equilibrio sul tavolo, i cuscini del divano erano al loro posto e le carte di credito del conte erano state disposte ordinatamente in fila. Agli inquirenti sembrò che quel disordine fosse stato creato ad arte per depistare le indagini.

Più che il disordine, ad attirare l’attenzione dei carabinieri furono alcuni dettagli. Prima fra tutti un’impronta di cinque dita insanguinate lasciata su una tenda di una finestra aperta. L’assassino poteva essere fuggito da lì? Impossibile. La finestra infatti affacciava su uno strapiombo da cui era impossibile fuggire. L’impronta però avrebbe comunque potuto rappresentare un indizio importante: la sua ricostruzione sarebbe potuta servire per incastrare l’assassino. Ma, al tempo, le tecniche scientifiche non erano sviluppate come ora e ricavare un’impronta nitida dalle tracce lasciate su una superficie porosa come quella della tenda era molto improbabile.

Nell’appartamento vennero rinvenuti anche un assegno da un milione e 400mila lire e una bottiglia di spumante. La presenza dello spumante sarebbe passata inosservata, se il vino non fosse stato di una marca non consona allo stile di vita del conte.

In camera da letto poi altri due oggetti attirarono l’attenzione degli inquirenti. Il computer del conte infatti era stato danneggiato: lo schermo era stato rotto. Forse l’assassino voleva nascondere qualcosa contenuto nel computer. Inoltre il quadro di san Girolamo, a cui Alvise Di Robilant teneva tanto e che aveva appeso sopra il letto, era stato sfregiato con un lungo taglio. Possibile che l’assassino avesse voluto colpire il conte anche tramite gli oggetti a cui era più affezionato. Per gli inquirenti, questi oggetti rimasero avvolti da un mistero insoluto.

Il suono del pianoforte

Indagando sulle ultime ore di vita del conte, emerse un altro dettaglio interessante, che si sviluppava attorno alle note di un pianoforte. Per capire cosa fosse successo la sera del 16 gennaio 1997, gli investigatori interrogarono gli abitanti del numero 18 di via della Vigna Nuova. Spesso il conte Alvise Di Robilant suonava il suo pianoforte e gli altri inquilini di palazzo Rucellai sentivano le note musicali provenire dal suo appartamento.

Anche quella sera le note del piano non erano mancate. A rivelarlo, come spiega anche una puntata di Enigma, era stata la contessa Barbara Rucellai, che dichiarò di aver sentito, prima delle 20, qualcuno che suonava Bach al pianoforte. Lei era convinta che a premere i tasti bianchi e neri fosse stato Alvise Di Robilant, ma ricordò anche di aver pensato che in quelle note c’era qualcosa di insolito: il tocco non era quello di sempre e il conte sembrava suonare peggio del solito.

Potrebbe essere allora che a suonare il pianoforte quella sera non fosse stato Alvise Di Robilant, ma il suo assassino? Una domanda che passò anche nella mente degli inquirenti, che infatti cercarono di individuare le impronte sulla tastiera, per capire se corrispondessero a quelle del conte o se potessero collocare un’altra persona nell’appartamento a Palazzo Rucellai. I rilievi scientifici diedero però un risultato sorprendente: sui tasti non venne rilevata alcuna impronta, nemmeno quelle del conte. Ma sicuramente qualcuno aveva suonato. L’assassino quindi aveva avuto cura di ripulire l’appartamento dalle proprie impronte.

Le piste degli investigatori

Il movente dell’omicidio rimane un dubbio irrisolto, ma nel 1997 gli inquirenti seguirono diverse piste. Prima fra tutte, come precisò anche il programma Blu Notte di Carlo Lucarelli, quella di un furto finito male. Ma dall’appartamento non mancava nulla, a parte quell’anatra di vetro inizialmente sospettata di essere l’arma del delitto. Inoltre il disordine trovato nella casa del conte sembrò essere un presunto tentativo di depistaggio. Per questo l’ipotesi del furto finito male venne scartata in breve tempo.

A catturare l’attenzione degli inquirenti fu un altro dettaglio. Quando è stato ritrovato, il conte indossava solamente un accappatoio. Impossibile che fosse andato ad aprire a uno sconosciuto in quelle condizioni: "Gli investigatori - sostenne l’Unità - dalla ricostruzione della scena di questo misterioso omicidio, si sono convinti che il conte Alvise di Robilant fosse in confidenza con chi lo ha ucciso. Altrimenti, dicono, non lo avrebbe ricevuto indossando soltanto quella vestaglia corta di cotone". Il conte forse "si era appena fatto una doccia ed era in procinto di vestirsi per andare a cena quando è suonato il campanello della porta. Il conte ha così aperto l’uscio di casa ad una persona che sicuramente, secondo gli inquirenti, conosceva e che ha fatto entrare in casa con tranquillità".

Inoltre il fatto che la porta non fosse stata forzata, la mancanza di segni di lotta nell’appartamento e quel copriletto posizionato sul corpo come per un gesto di pietà fecero pensare agli inquirenti che Alvise di Robilant conoscesse il suo assassino. Per questo un’altra delle piste battute fu quella sentimentale: l’omicidio avrebbe potuto nascondere un movente passionale. Così vennero sentite le donne frequentate dal conte e, in particolare, la sua ultima compagna ufficiale, la principessa Livia Colonna che, però, per quella sera aveva un alibi. Anche dall’ipotesi passionale non emerse nulla.

La principessa, che sosteneva di essere anche una sensitiva, indirizzò però gli inquirenti su una pista che era già stata in parte ipotizzata: quella dell’antiquariato clandestino. Si pensò che il conte, esperto di arte, fosse implicato in qualche giro clandestino e che quella sera fosse in attesa di un suo compratore o di un suo contatto. Ma questa ricostruzione stonava con l’abbigliamento del conte.

"A parer mio, sono due le ipotesi probabili - spiega Rossitto - La prima è che l'omicidio sia maturato in un contesto sentimentale o affettivo. Il fatto che il conte avesse aperto la porta di casa all'assassino, per giunta in accappatoio, fa pensare a una persona con cui avesse una certa consuetudine. In tal senso, è ipotizzabile che tra i due ci sia stato un diverbio poi culminato tragicamente. Forse un delitto d'impeto”. Il giornalista non esclude un’altra pista: “quella relativa all'attività lavorativa del conte. Si occupava di arte e per alcuni anni era stato amministratore della sede fiorentina della casa d’aste Sotheby’s. Il fatto che l'assassino abbia sfregiato uno dei quadri a cui Alvise di Robilant teneva particolarmente potrebbe essere indicativo di un delitto a sfondo, per così dire, economico. Una questione d'affari che poi ha avuto un risvolto personale".

Si ipotizzò anche che Alvise di Robilant potesse avere delle frequentazioni omosessuali segrete. Per valutare questa quarta ipotesi, la procura ordinò un tampone orofaringeo, per rilevare eventuali tracce biologiche di una seconda persona. I risultati però diedero esito negativo: le tracce trovate appartenevano al conte. Parenti e amici del conte negarono la possibilità che Di Robilant avesse relazioni omosessuali e inoltre, se fossero stati clandestini, gli incontri non sarebbero certo avvenuti a palazzo Rucellai, col rischio di essere scoperti. Così anche quest’ultima pista si rivelò un vicolo cieco, e il mistero restò tale.

"Forse - conclude Rossitto - se gli inquirenti dell'epoca avessero avuto a disposizione gli strumenti tecnici che ci sono oggi, questa storia avrebbe avuto un risvolto diverso".

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