Cronache

Adalberto Titta, la spia senza volto

Adalberto Titta, la spia che ha vissuto la sua intera vita nell'ombra, a capo di una organizzazione segreta dai contorni sfuggenti

Adalberto Titta, la spia senza volto

Storie incredibili, dalla seconda guerra mondiale alla Prima Repubblica, tra depistaggi, doppiogiochismo, fiumi di denaro e morti sospette. Professione 007 è la serie podcast nata dalla collaborazione tra Dark Side – storia segreta d’Italia e ilGiornale.it. Una nuova puntata qui ogni martedì alle 14.

Fa caldo. L’estate a Napoli non fa sconti, ma un caffè tra colleghi in certe circostanze non si può rifiutare. Dopo tre mesi, l’ostaggio è stato liberato. Le Brigate rosse hanno fatto trovare Ciro Cirillo su una strada provinciale. Bisogna festeggiare. Il colonnello del Sismi venuto da Roma entra nel bar in mezzo ad altri agenti. Al bancone, in disparte, di nuovo lui. Difficile non notarlo: è il più alto di tutti e ha una stazza enorme. Se ne sta in silenzio di fronte a una tazzina di caffè. Il colonnello di Roma lo osserva.

Nelle ultime settimane, quando la trattativa per la liberazione dell’ostaggio si è fatta più serrata, se l’è ritrovato spesso davanti. Non si sono mai parlati e anzi, solamente ora il colonnello comprende che si tratta di un collega. Incuriosito, si avvicina. «Ciao, ci ritroviamo». Il gigante abbozza un sorriso, il colonnello insiste: «Scusa una cosa... ma tu a che divisione del Sismi appartieni?». Il sorriso sulla bocca dell’uomo scompare, lo sguardo si fa indagatore. «Eh...» mormora «poi ti spiego». Senza bere il caffè, esce e si dilegua.

Adalberto Titta è l’agente senza volto per antonomasia e tale sarebbe rimasto se negli anni ’90 lo storico Aldo Giannuli, in veste di consulente della procura di Brescia per le indagini sulla strage di piazza della Loggia, non avesse scoperto l’esistenza di una velina del 1972 che comincia così: «Questa è la storia di un servizio informazioni che opera in Italia dalla fine della guerra e che è stato creato per volontà dell’ex capo del SIM, Generale Roatta». Una velina che ilGiornale.it può mostrare integralmente per la prima volta. In questo documento, si parla di una struttura d’intelligence fino a quel momento ignota. Una struttura senza nome, che negli anni a seguire verrà identificata come “Noto servizio” o, con maggior successo, “Anello”, in quanto struttura di connessione tra il mondo dei servizi segreti e la politica.

Scavando negli archivi, il professor Giannuli si accorge ben presto che questo non è un servizio segreto qualsiasi, ma una struttura i cui membri appartengono anche al mondo civile e il cui principale capo operativo – o meglio, l’unico a essere emerso in questa veste – è Adalberto Titta, fino a quel momento un fantasma. O quasi. Perché in realtà, Titta viene da un passato “ingombrante” per la Repubblica: quello della RSI, la Repubblica Sociale di Benito Mussolini. Una radice comune a molti funzionari ancora in servizio nell’apparato statale sino alla fine degli anni ’70. Lo conferma un documento inedito, qui presentato per la prima volta, del 1979, che fa luce sul passato di Titta ma soprattutto sui suoi rapporti con l’ambiente dell’estrema destra di Junio Valerio Borghese. Nel documento un altro passaggio interessante è quello della proprietà dell’ex ufficiale dell’aereonautica della RSI: una tenuta di oltre 200 ettari a Colle Val d’Elsa, in provincia di Siena.

La sua ombra era stata già intravista nei primi anni Ottanta dopo l’esplosione del caso Cirillo: la liberazione dell’assessore campano della DC rapito dalle Br, era infatti stata possibile grazie a una trattativa tra lo Stato, la camorra di Cutolo e le Brigate rosse di Giovanni Senzani. Si scoprirà soltanto qualche anno dopo che era stato proprio lui il motore principale dell’accordo.

Ma non è questa la prima volta in cui Adalberto Titta partecipa a una liberazione. Già asso dell’aviazione della Repubblica di Salò alla fine della seconda guerra mondiale, Titta non perde il suo credo fascista e nel ferragosto del 1977 ne troviamo traccia nella rocambolesca fuga di Herbert Kappler, l’ex maggiore delle SS responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Condannato all’ergastolo e ricoverato per una grave malattia all’ospedale militare del Celio, Kappler scomparirà nel nulla per poi ricomparire in Germania. La storia ufficiale lo vuole rinchiuso in una valigia calata dalla moglie da una finestra alta diciassette metri: la realtà è che il nazista ha lasciato l’ospedale tranquillamente scortato da Titta e dai suoi uomini per un accordo segreto tra Roma e Berlino, un accordo che emergerà soltanto molti anni dopo.

Insieme a Kappler fuggono dall’ospedale anche il colonnello Amos Spiazzi, protagonista del piano eversivo noto come Rosa dei venti, e il capitano Salvatore Pecorella, coinvolto nel Golpe Borghese. Un uomo inserito nei gangli dello Stato e, forse, del potere, in stretta connessione con la politica. Il capo operativo di Anello partecipa infatti alla creazione del Partito Popolare Italiana di Volturno Morani, un movimento destinato a fare concorrenza interna alla Democrazia Cristiana, al fine di sottrarle elettori e, soprattutto, potere. Un documento del 1979, che ilGiornale.it può qui mostrare in anteprima, riferisce del ruolo centrale di Titta nelle candidature del PPI a Milano. Non solo: il documento riferisce di rapporti diretti dello 007 a Napoli con un certo Macciò, un ristoratore vicino ad Antonio Gava.

In qualità di capo operativo di Anello, Titta è chiamato in causa per il progetto di attentato alla vita di Aldo Aniasi, ex partigiano e sindaco socialista di Milano, che avrebbe dovuto essere ucciso in un incidente stradale simulato. In un appunto del 1980 che ilGiornale.it può mostrare in anteprima, si ricostruiscono i rapporti con la destra estrema milanese e con i reduci della RSI. Sorprendentemente, però, la Digos milanese, estensore dell’appunto, conclude che «attualmente al Titta non si rilevano pregiudizi sfavorevoli all’atto di questo ufficio». Una conferma del fatto che lo 007 si muovesse per conto di referenti ben definiti e qualificati.

Di Adalberto Titta si sa poco altro e non esistono fotografie, se non quella posta sulla sua lapide. Un uomo che ha vissuto la sua intera esistenza nell’ombra, a capo di una struttura dai contorni sfuggenti la cui presenza emerge in controluce in tanti altri episodi chiave della storia Repubblicana, compresi molti fatti di sangue. Gli incidenti stradali sembrano essere il metodo più rodato per l’eliminazione di personaggi scomodi. E un personaggio scomodo era anche il colonnello Antonio Varisco, Comandante del Nucleo Tribunali, Traduzioni e Scorte e dal 1976 del Reparto Servizi Magistratura a Roma, amico stretto di Mino Pecorelli, ucciso nella Capitale la mattina del 13 luglio 1979.

Il nome Varisco è annotato, anche se non riferito direttamente al colonnello, in una pagina la rubrica telefonica di Titta, qui presentata per la prima volta. Colpiscono le annotazioni particolareggiate: più che una semplice rubrica, è un vero e proprio schedario, con professioni, gradi di parentela, possibili legami con altre persone.

La sua stessa morte resta avvolta nell’ombra. Ufficialmente muore per un attacco cardiaco il 27 novembre 1981 nell’ospedale di Orvieto. La sera precedente è a cena con il colonnello Federigo Mannucci Benincasa, ufficiale dei carabinieri, membro del Sifar – l’antenato del Sismi – dalla metà degli anni Sessanta, e direttore del Centro controspionaggio di Firenze dal 1971. I dubbi su questa fine permangono tutt’ora. Nessuna autopsia è mai stata effettuata e nel giorno della morte, nello stesso ospedale in cui è ricoverato in fin di vita, c’è un andirivieni sospetto di ufficiali di vari ordini e gradi.

Non possiamo escludere che la sua ombra possa tornare a far parlare di sé, stavolta davvero in veste di fantasma.

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