Ormai non bastano le dita di una mano per contare i tentativi di riforme istituzionali abortiti in mezzo secolo nel nostro Paese. Si sono cambiate diverse leggi elettorali, si è ridotto il numero dei parlamentari, ma non c'è mai stata una modifica complessiva della nostra Costituzione che comprendesse la forma di governo. Eppure - per bocca di tutti, a destra come a sinistra - non è che non sia necessaria. Di più. Ecco perché il «pregiudizio» camuffato con cui Elly Schlein e Giuseppe Conte hanno aderito al confronto sull'argomento con il capo del governo è un errore. Come è uno sproposito retorico dire che ci siano altre priorità in questo momento: un esecutivo instabile e, magari, con prerogative deboli è uno dei motivi per cui è difficile se non impossibile governare l'Italia.
Ragion per cui è giusto che il presidente del Consiglio e la maggioranza provino ad introdurre il premierato o il presidenzialismo nel nostro ordinamento senza accettare veti o ricatti. Un governo che sia messo nelle condizioni di governare è una riforma non contenuta nel Pnrr, ma è altrettanto importante di quelle che ci chiede l'Europa. Anzi, forse lo è ancora di più, perché le difficoltà che incontriamo a realizzare i progetti per cui abbiamo ricevuto fondi dalla Ue derivano anche dal nostro assetto istituzionale che non asseconda, per usare un'espressione che si è consumata nella nostra condizione di impotenza, la magia del «fare».
Detto questo, le riforme istituzionali sono un argomento da maneggiare con cautela e su cui bisogna ricercare il massimo consenso. Intanto, perché cambiare la forma di governo in una Repubblica parlamentare è un'innovazione poco meno rivoluzionaria del passaggio dalla monarchia alla Repubblica. In secondo luogo, perché se si fanno le riforme con maggioranze risicate si corre il rischio che un'eventuale maggioranza con colori diversi nella prossima legislatura faccia altrettanto. E, come nel gioco dell'oca, si tornerebbe fatalmente alla casella di partenza.
È il vizio che ha portato al fallimento di tutti i tentativi di riforma. Con un paradosso: non è stata cambiata la Costituzione, ma è stato terremotato il governo che se ne è occupato. La Bicamerale di fine secolo servì essenzialmente a portare il suo presidente, Massimo D'Alema, a Palazzo Chigi al posto di Romano Prodi. Mentre il referendum del dicembre del 2016 si fece più sul governo di Matteo Renzi che non sulla sua riforma, e ne determinò solo lo sfratto da Palazzo Chigi.
Ecco perché è sempre meglio cambiare le regole del gioco con il consenso più ampio. Al costo di scegliere una strada più tortuosa. In fondo la storia lo insegna: l'unica riforma istituzionale che ha prodotto un risultato che dura da quasi ottant'anni è quella che ci ha dato la Costituzione. E fu fatta da un'assemblea Costituente che lavorò senza essere condizionata dalle polemiche e dalle scadenze della politica.
La nostra Carta fu il risultato di un lavoro condiviso perché nacque in un ambiente sterilizzato dalle interferenze del quotidiano. Non è una scorciatoia, certo, ma quattro anni di legislatura bastano e avanzano per compiere un tragitto che sarebbe sicuramente più autorevole, solenne e adeguato.
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