Scena del crimine

L'assalto sul "sentiero delle Signore": Alì e la mattanza di Diana e Tamara

A 24 anni dal delitto del Morrone, in cui persero la vita Diana Olivetti e Tamara Gobbo, restano ancora molti dubbi sul pluriomicidio. "Ci sono aspetti mai chiariti", spiega la giornalista Maria Trozzi

L'assalto sul "sentiero delle Signore": Alì e la mattanza di Diana e Tamara

Sono passati 24 anni esatti dal delitto del Morrone, la terribile mattanza consumatasi il 20 agosto 1997 in località Mandra Castrata, sull'omonimo monte abruzzese che dà il nome alla tragedia. Autore della strage fu Alivebi Hasani - meglio noto come Alì - il pastore macedone che uccise due giovani escursioniste padovane, Diana Olivetti e Tamara Gobbo. L'unica sopravvissuta alla strage fu Silvia Olivetti, sorella di Diana, scampata alla furia omicida dell'aggressore per essersi finta morta.

"Il delitto del Morrone scosse profondamente noi abruzzesi. E ancora oggi, nonostante la vicenda giudiziaria sia conclusa da tempo, la ricordiamo con profondo dolore", dice a IlGiornale.it il procuratore di Sulmona Giuseppe Bellelli.

Il caso si risolse nel giro di pochissime ore, a seguito della confessione di Hasani che nel 1999 fu condannato dalla Corte d'Assise dell'Aquila all'ergastolo per il pluriomicidio. "Nonostante la condanna di Hasani, ci sono ancora dei punti oscuri sulla dinamica dell'accaduto. Purtroppo, per i mezzi investigativi di cui si disponeva al tempo, non fu possibile fare ulteriori accertamenti", spiega alla nostra redazione la giornalista di LaPresse Maria Trozzi, autrice del libro-inchiesta "Il sentiero delle Signore".

L'escursione sul monte e l'incontro col pastore

È l'estate del 1997. Tre giovanissime ragazze di Albignasego (Padova), Silvia, Diana e Tamara, decidono di trascorrere le vacanze in Abruzzo. Sono appassionate di escursionismo e si organizzano per esplorare in lungo e in largo il Parco Nazionale della Majella.

La mattina del 20 agosto pianificano un'escursione sul monte Morrone. Dalla località di Sant'Eufemia a Maiella, dove si sono accampate per la notte, intraprendono il cosiddetto "sentiero delle Signore", uno sterrato che conduce agevolmente alla vetta della montagna. Pressappoco alle ore 10, dopo circa due ore di cammino, giungono al rifugio Campotosto. Lungo la strada incrociano un pastore a cui domandano informazioni per una scorciatoia.

Lo sconosciuto, uno straniero dall'aspetto trasandato ma garbato, indica loro la via offrendosi di scortarle in prossimità di una piccola area boschiva. Le ragazze, entusiaste dell'aiuto, decidono di seguirlo.

La furia del pastore su Silvia, Diana e Tamara

Arrivati in prossimità del bosco di Mandra Castrata il pastore estrae una pistola dalla tasca dei pantaloni intimando alle giovani di seguirlo tra la folta vegetazione. Silvia, che ha poco più di 21 anni, prova a reagire implorando lo sconosciuto di lasciarle andare. Di tutta risposta, lo straniero esplode un colpo d'arma da fuoco che le trafigge l'addome. Gravemente ferita, la 21enne si accascia al suolo e, nel tentativo estremo di salvarsi, si finge morta.

Tamara grida, si dispera: il pastore non la risparmia e apre di nuovo il fuoco. Neanche per Diana c'è scampo. Lo straniero obbliga la ragazza ad appartarsi con lui tra gli alberi, tenta di violentarla decidendo poi di ucciderla a colpi di pistola. Intanto Silvia rinviene e, seppur sanguinante, riesce a guadagnare la fuga dall'assassino. Dopo ben 5 ore di cammino la 21enne, unica sopravvissuta alla strage, giunge in località Marane, una frazione di Sulmona. "Hanno ucciso mia sorella e la mia amica!", è il suo grido d'aiuto disperato prima di perdere i sensi.

Delitto del Morrone

La cattura del pastore e la confessione

Mentre Silvia viene soccorsa e trasportata all'ospedale di Sulmona, i carabinieri passano al setaccio il monte Morrone. Dopo ore di ricerche, la mattina del 21 agosto, i militari rinvengono i cadaveri di Diana e Tamara all'interno del bosco dove si è consumata la mattanza.

Poco distante dalla scena del crimine, in uno stazzo a circa 1700 metri di altitudine, c'è Alivebi Hasani che dorme serenamente. Il pastore, un clandestino macedone di 24 anni, non oppone resitenza né nega di aver ucciso le due giovani escursioniste. "Sono stato io a uccidere le ragazze", confessa. A notte fonda per lo straniero si spalancano le porte del carcere di Sulmona.

Le indagini e il giallo delle pistole

Le indagini del caso vengono affidate alla polizia e coordinate dal pm del Tribunale di Sulmona Laura Scarsella. A inchiodare Hasani c'è il racconto della giovane Silvia, unica superstite della mattanza, che riconosce il volto dell'assassino in foto.

Ci sono poi tre pistole, rinvenute sul monte della Majella nei giorni successivi al delitto, ad aggravare la posizione del sospettato. A fare ritrovare le armi è Mario Iacobucci, datore di lavoro di Hasani, che ammette di aver fornito le semi automatiche al giovane macedone - ignaro dell'utilizzo che ne avrebbe fatto - e di averle poi nascoste temendo di essere coinvolto nella vicenda. Iacobucci patteggia una condanna a un anno per porto e detenzione di armi clandestine.

Ci sarebbe anche una quarta pistola, forse l'arma del delitto, che però non sarà ritrovata. La famosa "pistola fantasma", così come passerà in rassegna alle cronache.

La condanna

A 17 anni dal delitto, dopo solo 2 ore di camera di consiglio, la Corte d'Assise dell'Aquila condanna Alivebi Hasani all'ergastolo per i reati di omicidio volontario plurimo pluriaggravato, tentativo di omicidio, violenza sessuale, porto e detenzione abusivo d'armi.

"Per il delitto raccapricciante che ha commesso non merita di incontrare più i familiari delle vittime – spiega la pm alla lettura della sentenza - come non merita le attenuanti generiche poiché, di fronte alla possibilità di confermare in aula la confessione resa alla Polizia ed il pentimento allora espresso ha invece preferito ritrattare ogni cosa". Alì, che dopo l'arresto aveva confessato il delitto, in aula prova a ritrattare affermando di essere stato costretto "con minacce di morte" ad assumersi la responsabilità del dei fatti.

Hasani, detenuto per anni nelle carceri italiane, nel 2016 è stato trasferito in Macedonia dove sta scontando il resto della pena.

Luci e ombre della mattanza

Per quanto la vicenda giudiziaria sia conclusa, il delitto del Morrone resta ancora un caso intricato e fitto di interrogativi. Secondo la giornalista di LaPresse Maria Trozzi, autrice de "Il sentiero delle Signore", il libro-inchiesta sulla drammatica mattanza, ci sono ancora molti punti da chiarire. "Il mistero della quarta pistola è sicuramente uno dei maggiori irrisolti del caso - spiega Maria Trozzi alla nostra redazione - Senza contare che un bossolo dei proiettili esplosi furono ritrovati dagli investigatori a primavera dell'anno successivo, nel 1998, riuscendo a sfuggire persino ai metal detector della scientifica nelle indagini condotte subito dopo tragedia. Sfogliando i faldoni dell'inchiesta, ad esempio, mi sono accorta che manca lo Stub (un'analisi dei residui di sparo, ndr) sebbene la polizia abbia confermato di aver eseguito un'analisi col guanto di paraffina. Ci sono ancora molti aspetti di questa vicenda che non sono chiari. Bisogna però considerare che al tempo non si avevano a disposizione gli strumenti che ci sono oggi per un'analisi accurata della scena del crimine".

Tra i molteplici interrogativi del delitto vi è l'ipotesi secondo cui insieme al pastore-assassino, la mattina del 20 agosto 1997, vi fosse anche un'altra persona che sarebbe stata testimone della mattanza. "Pur non escludendo ricostruzioni diverse dal fatto, - dice il procuratore di Sulmona Giuseppe Bellelli - non ho ravvisato elementi per riaprire le indagini".

Cippo Monte Morrone

Il delitto Morrone oggi

Sul luogo dove si consumò la mattanza è stato apposto un cippo in memoria di Diana Olivetti e Tamara Gobbo. Ogni anno, in occasione della triste ricorrenza, i genitori delle due vittime si raccolgono in preghiera davanti all'inscrizione funebre.

Silvia Olivetti, sopravvissuta alla strage, si è gettata il passato alle spalle.

Oggi è sposata e vive proprio lì, su quel monte dove ha perso sua sorella e la sua più cara amica. Il 26 agosto 1997, Silvia scrisse una lettera aperta, pubblicata da Famiglia Cristiana:

"Vorrei dire ai giovani, come me, di vivere la vita e non lasciarla là, andare o sfuggire, e di stare attenti al mondo: il mondo porta via dei valori, dei sentimenti umani. Parlo ai genitori: state vicini ai vostri figli e insegnate loro i valori della vita, della famiglia e del rispetto degli altri. "Padre Nostro [...] rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori": è una grande cosa, troppo grande. Riesco anche a perdonare, ma il problema è più profondo, tocca il cuore. Nonostante il perdono, resta una realtà dura da accettare, e convivere con essa non sarà facile. Per questo vorrei crescere nella fede e nella preghiera. Il mio cuore è aperto a Dio perché voglio seguire l’esempio che Diana e Tamara mi hanno dato, fino ad ora, del loro credere. Non odio nessuno, non sarei capace di odiare, però sento dentro tanta rabbia e tanta tristezza per una realtà troppo bella che è andata in frantumi, come un vaso di cristallo, senza una spiegazione, non dico giusta ma almeno sufficiente da lenire in parte il dolore. Sopra i monti vedo una croce, ma sullo sfondo vedo il tutto sormontato dai raggi del sole: nulla resterà inutile e senza senso".

Commenti