Scena del crimine

"Diana è stata giustiziata senza sporcarsi le mani"

Cos'ha portato alla morte Diana lasciata da sola per una settimana dalla madre? La criminologa: "Emergono i tratti di una personalità egocentrica e incline alla menzogna"

"Diana è stata giustiziata senza sporcarsi le mani"

Luglio 2022, Milano: una bambina muore di stenti. Alla base però non c’è una tragedia della povertà. Diana, 16 mesi, è rimasta per un’intera settimana da sola, senza acqua e viveri sufficienti, una boccetta di benzodiazepine nella sua culla da campeggio: è questo lo scenario che il giornalismo può descrivere con continenza, rispondendo alla logica dell’essenzialità dell’informazione. Ma ogni lettore d’Italia probabilmente ha un’immagine precisa in mente, anche senza aver mai visto il volto di quella bimba.

Non doveva andare a finire così, ma è accaduto. La madre, Alessia Pifferi, è ora in carcere per omicidio. Dalla sua confessione sono emersi diversi dettagli: l’aver ignorato di essere incinta, le bugie raccontate nel tempo alle persone - che la bambina si trovasse insieme a qualcuno, la babysitter o la zia, quando la lasciava sola, il fatto di essere una psicologa infantile -, il fatto che nessuno abbia sentito la piccola piangere.

Quello delle madri assassine è una sorta di tema ricorrente nella cronaca di questi anni. Ma la storia di Diana è molto diversa da quella di Elena Del Pozzo, di Lorys Stival, di Samuele Lorenzi. “È stata giustiziata senza sporcarsi le mani”, spiega a ilGiornale.it Anna Vagli, criminologa investigativa ed esperta in scienze forensi.

Dottoressa Vagli, come possiamo inquadrare, per ipotesi, il caso di Alessia Pifferi alla luce dei dettagli emersi? Esistono in letteratura casi simili a questi, di abbandono e morte di un minore da parte di un genitore?

“Sì, la letteratura riporta evenienze simili. Accade nei casi, come quello della piccola Diana, nei quali la madre trascura deliberatamente un figlio perché non è capace di adempiere adeguatamente alla funzione materna (il cosiddetto coping maternal). Alessia Pifferi rientra nella categoria di quelle donne che non hanno mai voluto la gravidanza e che addebitano al figlio, o la figlia come in questo caso, la colpa di averle costrette a vivere in ambienti e scenari non graditi e considerati limitanti. E lo confermano le sue affermazioni”.

Cioè?

“La donna ha dichiarato agli inquirenti di aver lasciato Diana da sola almeno un fine settimana di giugno e tutti di quelli di luglio. Aveva persino negato al compagno la gravidanza. Quella figlia proprio rappresentava un ostacolo. E lei ha fatto di tutto per rimuoverlo mettendo in conto anche che potesse fare una fine atroce. Che poi ha fatto. Emergono i tratti di una personalità egocentrica e incline alla menzogna. E il fatto di raccontare di essere una psicologa infantile serviva ad Alessia ad acquisire una sorta di etichetta sociale: era un modo per darsi un tono alludendo a delle competenze e capacità, come quelle genitoriali e di relazione con i bambini, che era consapevole di non avere”.

La casa in cui viveva la piccola Diana

Crede che potrebbe essere disposta una perizia psichiatrica sulla donna, che ha confessato?

“Certo, è quasi una prassi in questi casi che i difensori chiedano la perizia psichiatrica anche – e forse a maggior ragione – quando c’è la confessione. Oltre agli scontati benefici in termini di pena, la richiesta di una simile perizia assolve anche a una funziona sociale”.

Ovvero?

“Mi spiego. Razionalmente è difficile spiegare che una madre possa uccidere un figlio. Per questo è in primis la collettività a spingersi nella ricerca di una presunta follia della madre assassina. Non è però una richiesta scontata come mostra la vicenda di Martina Patti che ha ucciso sua figlia Elena Del Pozzo. Al momento, i suoi legali hanno preferito non chiederla forse perché lo scenario clinico che emergerebbe potrebbe essere addirittura peggiore”.

Perché l’autopsia e gli esami sulla piccola Diana potrebbero essere tanto decisivi?

“Sarà dirimente per capire le cause del decesso. Il nodo cruciale sarà capire se Alessia ha somministrato a Diana sostanze come le benzodiazepine trovate all’interno dell’abitazione, con lo scopo di stordirla e non farla piangere. Il che renderebbe lo scenario ancor più agghiacciante”.

C’è chi sceglie deliberatamente di uccidere un figlio “senza sporcarsi le mani”, come scrive in un suo articolo, o la storia di Diana è ascrivibile a un’altra casistica?

“Diana purtroppo è stata giustiziata senza sporcarsi le mani. Uccisa passivamente perché Alessia Pifferi l’ha fatta morire di stenti dopo averla abbandonata con coscienza. L’ha lasciata consapevolmente in balia del suo tragico destino. Peraltro è lei stessa ad averlo ammesso durante la convalida del fermo. ‘Sapevo che sarebbe potuto accadere’, ha dichiarato”.

Cosa l’ha colpita?

“Anche se abitualmente mi interfaccio con lucidi scenari criminali, mi ha profondamente colpita la noncuranza e la normalizzazione della presa di coscienza di Alessia rispetto alla morte della figlia. Davanti ai magistrati non ha mostrato alcun segnale di disperazione, pentimento o dolore per aver perso la figlia. Una maternità mostruosa che porta con sé una inaccettabile considerazione: la donna non aveva mai voluto Diana ed è altamente probabile che si senta sollevata ora che non c’è più. È umanamente difficile da comprendere, ma la cronaca nera degli ultimi tempi ci mette di fronte a scenari che dobbiamo imparare a digerire per contrastarli”.

Negli ultimi anni, accanto agli infanticidi commessi dai padri, spuntano diversi casi di infanticidi compiuti dalle madri. Perché questi delitti compiuti dalle madri colpiscono così tanto l’immaginario?

“Negli ultimi vent’anni la società ha dovuto imparare a fare i conti con una terribile consapevolezza: le madri possono uccidere i loro figli. Ed è una consapevolezza che lascia sgomenti perché è innaturale che una madre tolga la vita a un figlio o a una figlia dopo avergliela donata. Bisogna fare però una precisazione”.

Quale?

“Dal punto di vista criminologico, si utilizza il termine figlicidio per indicare l’omicidio di un figlio, di età superiore a un anno, da parte di uno dei genitori. Ma nel Codice Penale italiano non esiste questa categoria. Difatti quest’ultimo distingue esclusivamente tra infanticidio e omicidio. Il reato di infanticidio, di cui all’articolo 578 del Codice Penale, punisce la procurata morte di un neonato subito dopo il parto e comunque non oltre l’anno di età. Questa è la ragione per la quale, anche nei confronti di Alessia, si procede per il reato di omicidio pluriaggravato. Perdoni la dovuta precisazione, ma sono anche giurista di formazione”.

Lei ha scritto di aspettative sociali nei confronti delle madri. Esiste un modo per prevenire questo tipo di crimini?

“Purtroppo viviamo in una società dove da millenni è radicato lo stereotipo per il quale le donne sono biologicamente predisposte all’annullamento della propria persona in favore del figlio che hanno messo al mondo. La realtà delle cose è molto diversa perché l’esperienza della maternità spesso genera ansia invasiva. Ansia che se non curata può sfociare in episodi omicidiari. È difficile prevenire, proprio per le convenzioni sociali di cui parlo”.

Perché?

“Lo è perché le madri si circondano di una sorta di impermeabilità emotiva: devono apparire a tutti i costi buone madri, sia nel quotidiano che su Instagram. Di conseguenza diventa complicato – in una società come la nostra – offrire aiuto a chi non lo chiede. Di strutture che si occupano di aiutare giovani madri in difficoltà ce ne sono tantissime sul nostro territorio. Ma se una persona non si mostra bisognosa e non chiede aiuto, diventa impossibile. Sarebbe utile, invece, portare all’attenzione mediatica i casi gestiti in maniera efficace dai servizi sul territorio. Un buon inizio che potrebbe indurre le madri in difficoltà ad abbattere il muro sociale dello stereotipo”.

Il sistema della giustizia italiana si basa sulla riabilitazione di chi commette un crimine. In questi casi la riabilitazione può avere un reale effetto?

“Pur con le difficoltà connesse alla generalizzazione rispetto a una risposta in merito, le dico questo. Accantonate le ipotesi psichiatriche, la possibilità di rieducazione è soggettiva e dipende anche molto dal tipo di istituto penitenziario nel quale si capita. Nelle carceri italiane siamo lontani anni luce da percorsi rieducativi efficienti e che possano definirsi tali. Frequento case di reclusione abitualmente e le parlo per esperienza.

La realtà è drammatica e non conforme a quella europea”.

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