Interni

I segreti di Stato (e di Mancini)

Comincio subito ficcandomi in mezzo a due storie che non avevo mai sentito

I segreti di Stato (e di Mancini)

Comincio subito ficcandomi in mezzo a due storie che non avevo mai sentito. Un libro mi ha trasferito direttamente sul posto dove stavano accadendo. Miracolo (...)

(...) della scrittura o del sopore della convalescenza? La prima vicenda che mi ha travolto, persino con un sorriso, è stata la cattura, nella brumosa periferia della Milano anni '80, di un brigatista rosso detto Bartali che si muoveva su una bicicletta da corsa tutta lustra. Per fuggire al pedinamento dei carabinieri di Dalla Chiesa si era lanciato contromano a tutta birra come un gatto sulla Tangenziale Est di Milano. Là scampò da un frontale saltando il guardrail e via per i campi con il velocipede delicatamente in spalla. Il suo guaio è che amava le sue due ruote più della libertà. Così prima di un'alba invernale, mentre correva alla Breda di Sesto San Giovanni, fu placcato dal brigadiere Marco Mancini che aveva riconosciuto la bici cromata nel cortiletto della casa di ringhiera, appesa per aria onde non sporcare il palmer. Non si spara a un brigatista disarmato, anche se non si arrende. Rotolavano sull'asfalto prendendosi a cazzotti. A difendere Bartali intervenne una signora che tirò la borsetta in testa al carabiniere: non si ruba la bicicletta a una brava persona che va a lavorare. Fu Bartali a chiarire il contesto urlando «Brigate rosse!».

La seconda è il sequestro del capo del controspionaggio, sempre Mancini, ma dopo vent'anni, dentro una moschea a Baghdad, dov'era andato per la settima-ottava volta a trattare la liberazione di ostaggi italiani/e (e non solo italiani) con un imam. Imam sparito, sostituito dal duro del gruppo. Un paio di kalashnikov alla testa, la certezza di essere liquidato perché era arrivata la notizia di un bombardamento americano dalle parti di Nassiriya. Lui che, in attesa della esecuzione, accompagnato in bagno, riesce a estrarre e a inghiottire la scheda Sim dal cellulare, con tutti i contatti locali, e poi a convincerli che non conveniva ammazzare un agente dell'intelligence. Lui e gli ostaggi liberi in cambio la fornitura di medicinali per i bambini (e in compenso la multa di 800 euro inflitta dai capi a Roma per non aver chiesto il permesso preventivo per distruggerla).

Nei servizi televisivi e nelle recensioni finora diffuse sul libro di cui sto scrivendo non ho sentito o letto nulla di nulla su questo tipo di avvenimenti di cui è ricca l'opera di cui sto dandovi notizia. Mi riferisco a Le regole del gioco Dal terrorismo alle spie russe. Rizzoli, euro 19, di Marco Mancini, come si sarà capito. In realtà il sottotitolo è più lungo, e vi si accenna al «controspionaggio». Di solito diffido quando sento odore di servizi segreti: alla larga. Ho avuto fortuna stavolta. Grande storia, ritmo di scrittura all'altezza, 348 pagine di avventura spionistica senza contorcimenti, sequenze di sorprese e di intuizioni improvvise, inseguimenti e ripensamenti, che mi hanno ricordato il Fattore umano di Graham Green, che del resto è stato una spia anche lui. Esagero? È una vita che non faccio altro che leggere, oltre che scrivere, e forse ci capisco qualcosa.

Ero curioso su Marco Mancini, su cosa raccontasse di sé stesso, e come cercasse di difendersi dalle maldicenze. Finora di lui avevano scritto e detto di tutto e a farlo erano stati tutti gli altri: e lui zitto. Cronisti del ramo, che si nutrono come scoiattoli delle noccioline offerte da procuratori, hanno sostenuto e sostengono ancora, da 17 anni e passa, che l'agente segreto e capo del nostro spionaggio meritasse la galera, ma che, essendosi sempre salvato per il rotto della cuffia grazie alla dicitura «segreto di Stato» appiccicata alle sue gesta criminali, bisognasse punirlo scorticandogli la reputazione.

Mi chiedo perché abbiano apposto questo timbro sulla sua fronte 8 (otto!) presidenti del Consiglio pronti ad accoltellarsi su tutto, ma che vanno invece d'amore e d'accordo nel fornire una corazza inscalfibile a Mancini e agli altri imputati del Sismi, tra cui il direttore Nicolò Pollari. Sono in ordine cronologico Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi (Meloni non si è ancora espressa). Nel frattempo, due volte la Corte Costituzionale, che ha il dovere di guardare dentro i segreti e annullarne la validità se li giudicasse espedienti per far assolvere un criminale, ha deliberato di convalidarli, annullando una sentenza della Cassazione che pretendeva di sentenziarne l'abrogazione. Dimenticavo: tutto questo si riferisce al processo per il rapimento a Milano di un imam da parte della Cia nel 2003. È il famoso caso detto Abu Omar.

Confesso. Sono partito con un pregiudizio favorevole. Di Mancini e della sua squadra mi aveva parlato Francesco Cossiga, quando, a vicenda freschissima, venne a Milano nel luglio del 2006. Venne in redazione a porta Venezia. Era appena andato a visitare a San Vittore quello che mi definì «il miglior agente che abbia avuto l'Italia», poi se ne andò a Brescia a denunciare gli inquirenti. Sosteneva avessero fatto un piacere ad Al Qaeda. Mi garantì quel che sapevo già a proposito di Renato Farina, mio vice a Libero, intelligente fino alla stupidità, e buono fino alla coglioneria, oltre che il più bravo a scrivere che ci sia in giro, non secondo me, ma secondo Cossiga. Il quale sapeva quel che diceva. Era stato lui subito dopo l'11 settembre del 2001 a chiedere che Libero desse una mano per risvegliare un'Italia in catalessi sotto minaccia terroristica dopo le Torri Gemelli. Bisognava, a suo giudizio, scegliere gli uomini giusti per riorganizzare e guidare i servizi segreti. Non ho mai preteso di capirci alcunché né avevo intenzione di capirne di più. Gli proposi di occuparsene lui, essendo ormai a pieno titolo collaboratore di Libero. Il Gatto Sardo, come amava definirsi, venne allora in redazione allora in una sorta di hangar a ridosso della ferrovia - per benedire il giornale con una bottiglia di Whisky Lagavulin. Ho lasciato che sul tema si esprimesse liberamente. Ci lasciò un articolo sterminato in cui raccontava trame e sotterfugi, finendo per proporre Nicolò Pollari come capo del Sismi in grado di dirigere adeguatamente la baracca atta a difenderci dai terroristi. Si firmava Franco Mauri. Decidemmo di mettere tra le mani il malloppo per renderlo digeribile a Renato. Che da allora divenne il giornalista incaricato di passare i pezzi firmati con pseudonimi di vario genere. L'iniziativa di Cossiga e di Libero ebbe successo. Berlusconi scelse Pollari. Il quale in premio non ci passò mai neppure mezza notizia. Scoprii poi che era Farina a trasmettergliene di decisive per individuare e liberare sequestrati in Iraq. Me ne accorsi quando cercai Renato a casa e mi rispose dal Qatar.

Questa è un'altra storia, e non credo che l'autore del volume ne sappia qualcosa, ma spiega perché il libro di Mancini mi abbia incuriosito. Devo dire che i temi ritenuti centrali dagli esperti ovvero Abu Omar e la trappola fotografica tesa a Marco Mancini e a Matteo Renzi sorpresi all'Autogrill di Fiano Romano con un pacco di wafer occupano meno del venti per cento del tomo che mi sono ritrovato tra le mani. I due sopra citati intrighi li lascio alla decifrazione degli specialisti: preferisco restare analfabeta quanto a 007 e simili, anche se ho afferrato il concetto che Mancini deve aver schiacciato i calli a qualcuno che gliel'ha giurata, facendolo sbattere da innocente in galera, e quando uno finisce in cella, in isolamento per di più, in carcere ci finisce dentro anche la sua famiglia, nel suo caso la moglie e la figlia allora bambina cui ha dedicato il libro.

Un bel libro. Vittorio Feltri

Commenti