Nove e trenta del mattino. A Piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi, incontri uno degli ingegneri politici del ventennio berlusconiano, quel Denis Verdini, che per i rapporti famigliari con un Matteo e quelli privilegiati con l'altro Matteo, ha un osservatorio attento e distaccato sugli accadimenti della terza Repubblica. «Il problema oggi spiega alla luce di una lunga esperienza è il narcisismo. Tutti si piacciono, pensano di fare quello che vogliono, senza seguire una logica. Renzi, ad esempio, votando per la messa in stato d'accusa di Salvini al Senato, di fatto ha chiuso con la politica: il Pd lo odia e ora nel centrodestra nessuno si fida di lui. Salvini ormai dovrebbe essersi convinto che le elezioni anticipate non ci saranno. Lo capirebbe anche un politico di terza fila: con la riduzione dei parlamentari nessuno vuole andare a votare. I grillini sono pronti a fare qualsiasi cosa per non andare a casa. Ma proprio per questo se ci fosse più di pragmatismo ci sarebbero gli spazi per fare un altro governo e, addirittura, per evitare che l'elezione del prossimo capo dello Stato diventi roba solo dei giallorossi: fatti i conti al centrodestra mancano solo quaranta voti per eleggere un presidente non figlio di questa maggioranza alla quarta votazione per il Colle. Il problema è che tutti questi leader hanno dei must su cui sono nati, si cui si sono piaciuti e non riescono a cambiare strategia. Salvini, ad esempio, dovrebbe sposare il sovranismo europeo, non quello nazionale».
Eh già: le leadership del momento sono contagiate dal narcisismo. Nessuna ne è immune. Basta analizzare le interviste di Giuseppe Conte: una lunga sequenza di «io», «io», «io». Sono i prolegomeni della fine. L'attenzione spasmodica al proprio ego, infatti, fa perdere di vista la realtà, i problemi. Basta guardare alla fattura dei provvedimenti legislativi: lunghi, pieni di contraddizioni, di tortuosità giuridiche, frutto di riunioni fiume e di maratone dialettiche. Il ritratto dell'avvocato d'affari. Sull'ultimo decreto Semplificazione sono state aggiunte otto parole, dicono su suggerimento dello staff della Raggi, che hanno vincolato tutta l'edilizia romana: non si può cambiare nulla non solo nel centro storico, ma neppure al Trullo. Risultato: nella Capitale, ma non solo, invece, di rilanciare l'edilizia, l'hanno bloccata. E dato che tutti sono innamorati di se stessi, nessuno cambia spartito, siamo in piena paralisi e va avanti un governo che batte tutti i primati. Ieri il sottosegretario 5stelle Manlio Di Stefano, pur essendo agli Esteri, ha dimostrato di non conoscere la geografia: ha scambiato la Libia con il Libano, facendo scuola visto che un'altra grillina, Elisa Pirro, per l'esplosione a Beirut ha espresso «vicinanza al popolo libico». «Con tutto il narcisismo che c'è in giro si lamenta il leghista Giancarlo Giorgetti la situazione non esploderà, semmai collasserà».
Dentro questo meccanismo perverso ci sono tutti. Il caso Salvini è emblematico: il leader della Lega non cambia strategia, magari perché non ne conosce un'altra: appena un anno fa si lanciò in una spericolata di crisi di governo agognando il voto; trecentosessantasei giorni dopo, visto che l'anno è bisestile, punta sempre ad elezioni che tutti sanno che non avrà. Solo che il tentare senza successo alla lunga logora (basta guardare i sondaggi). Se ne sono accorti tutti. «È come la mosca che batte contro il vetro è l'immagine che conia uno degli uomini ombra del Cav, Valentino Valentini alla fine ci muore». «È il più grande alleato di Conte osserva Sestino Giacomoni, altro consigliere del Cav perché non offre un'alternativa». «Con l'atteggiamento verso l'Europa spiega il piddino Ceccanti si è autoescluso dal governo: se una volta c'era un fattore K contro i comunisti, ora c'è un fattore E contro la Lega».
Un limite che anche nella Lega, forgiata alla disciplina di partito come i vecchi bolscevichi, rimarcano. «Il nostro retroterra si lamenta il ferrarese Emanuele Cestari sono le piccole e le medie imprese che vogliono partecipare al rilancio del Paese, vogliono usufruire dei 209 miliardi della Ue. Invece, noi siamo fuori, a chiedere elezioni che non ci saranno. Intanto i forzisti hanno fatto incetta di vicepresidenze nelle commissioni parlamentari: già sono d'accordo con gli altri». «Dobbiamo far cadere questo governo confida un altro leghista, Giuseppe Basini dialogando con i centristi, la sinistra moderata di Renzi, di Calenda, i grillini eterodossi, non pensare solo al voto che non arriverà. In quanti la pensiamo così nella Lega? La maggioranza!».
Appunto, Renzi. Anche lui è convinto di poter far tutto, e il suo contrario, senza pagar dazio. Con la «mossa del cavallo» dell'estate scorsa, ha evitato che Salvini si prendesse il Paese. Poi, però, a furia di muovere solo il cavallo, si è perso: era il grande critico di Conte, ne è diventato un paladino; ha sbertucciato per mesi il ministro della Giustizia Bonafede, ma poi lo ha risparmiato; aveva trovato un'intesa sulla legge elettorale proporzionale e l'ha rimossa; ha salvato Salvini in giunta per le autorizzazioni al Senato e poi lo ha consegnato ai giudici in aula. Per lui tutte le mosse che fa hanno una ratio, anche le più inspiegabili. Catello Vitiello, renziano, era riuscito a farsi eleggere presidente della Commissione Giustizia della Camera ma è stato costretto a rinunciare dal capo in ossequio agli accordi con la maggioranza che assegnavano a Italia Viva la commissione Finanze. Lui c'è rimasto male: «Presidente per un'ora. La verità è che troppo protagonismo fa male. Eppure ci voleva poco a capire che con la Giustizia avremmo potuto fare sicuramente più politica». Ancora di più l'ex azzurro Enrico Costa che aveva lavorato per quel risultato: tanto che ha interrotto del tutto la liason con Renzi e si è accasato con Calenda. La stessa strada ha intrapreso Matteo Perego (si è dato 48 ore per decidere e dice «Renzi è ritornato sulla sponda del Pd») e in prospettiva ravvicinata anche la Carfagna. Tantoché Maria Stella Gelmini ha in mente di proporre al Cav una federazione Forza Italia-Calenda per evitare guai.
Già, il centro: «Culla - per usare un'espressione del radicale Riccardo Magi - di protagonismi e narcisismi». Appunto, per pesare dovrebbero mettersi tutti insieme, coltivare un «segmento» elettorale che sulla carta potrebbe contare il 20%. Invece, tra gelosie e rancori, lo sport preferito di quell'area è diventato dividersi. Esattamente il contrario degli insegnamenti di Berlusconi. Conscio di questi movimenti ieri il Cav ha lanciato un avvertimento ai suoi: «Chi va al centro muore». Solo che anche dare di sé la percezione di stare nel limbo, di non essere proprio opposizione, ma di non stare neppure nel governo, non aiuta. Solo che la vecchia indole di Berlusconi non è tanto piacersi, ma piacere: a tutti. E, magari, in futuro potrebbe giovargli. «Ormai quando parla in aula racconta il sottosegretario ai rapporti con il Parlamento, il grillino Gianluca Castaldi Salvini non se lo fila più nessuno, mentre il Berlusconi che dice siamo noi il futuro, dimostra di essere ancora il numero uno». Al punto che a Gianfranco Rotondi, pallottoliere in mano, è venuta un'idea pazza. «Per eleggere il Cav presidente della Repubblica confida nella peggiore delle ipotesi mancano 67 voti.
Bisogna lavorarci: bisogna subito creare un cuscinetto di 30 e poi aggiungere 37 voti all'ultimo scrutinio. In fondo ora piace a tutti». È possibile? Nei sogni, solo che il libro preferito da sempre ad Arcore è L'elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam.
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