Scegliamo gli amici guardando ai loro nemici

Hamas, agli occhi della sinistra accademica, non è un gruppo terroristico, ma una resistenza leggendaria, eroica, romantica

Scegliamo gli amici guardando ai loro nemici
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Gli intellettuali non mancano certo di opinioni, ma quando un tema scotta davvero, quando la controversia diventa un campo minato morale e politico, c'è un rifugio a cui ricorrono spesso: definirlo «complesso».

La guerra a Gaza è uno di quei casi. E sì, la storia intricata, le ferite religiose mai rimarginate, i conflitti culturali e geopolitici rendono davvero complessa la questione israelo-palestinese. Ogni parte accusa l'altra di ignoranza, sventola le proprie verità e rivendica il possesso esclusivo dei fatti. Ma qui voglio fare una premessa necessaria: non sono un esperto di Medio Oriente. Non parlo né ebraico né arabo. Non ho mai visitato né Israele né Gaza, ma conosco bene la politica americana. E so riconoscere le ombre che questa guerra ha proiettato dentro casa nostra.

Da una parte ci sono i sostenitori di Hamas a domicilio: gli ideologi della decolonizzazione, gli studenti dei campus con il keffiyeh al collo, e un numero crescente di individui radicalizzati, pronti alla violenza.

Non si tratta di episodi isolati. C'è un filo che lega tutto. Questa ideologia nasce nei salotti accademici di Harvard, si fa slogan nei cortei universitari, diventa meme su TikTok, e poi si incarna nei gesti feroci di chi getta molotov o piazza bombe davanti a sinagoghe. È successo davvero: ambasciate attaccate, impiegati israeliani assassinati, feriti a Boulder, Colorado. Non c'è bisogno di parlare ebraico per riconoscere questa deriva come una minaccia. Basta leggere i manifesti, osservare le azioni, capire che si tratta di un culto del caos, una nuova forma di barbarie.

Non serve nemmeno mettere piede in Israele per cogliere il parallelo su cui si fonda questa narrazione: i palestinesi stanno a Israele come la sinistra radicale sta all'America. Nella loro visione, Israele rappresenta l'impero, e gli ebrei sono i nuovi bianchi da abbattere. Hamas, agli occhi della sinistra accademica, non è un gruppo terroristico, ma una resistenza leggendaria, eroica, romantica.

E quando il 7 ottobre i paracadutisti di Hamas sono atterrati uccidendo civili, quegli stessi attivisti hanno esultato. Perché Hamas ha fatto ciò che loro riescono solo a teorizzare: trasformare l'odio in gesto, la rabbia in sangue. È stato, per loro, un momento di euforia ideologica, una catarsi. Vivendo in un Paese libero, ci si dimentica che la civiltà non è una condizione naturale. È un miracolo fragile, raro, sempre sotto assedio.

Si può scegliere di non giudicare una guerra lontana, si può anche sperare che gli Stati Uniti si ritirino dalle guerre per procura. Ma non possiamo ignorare la guerra ideologica che si sta combattendo nei nostri campus, nelle nostre città, persino nei luoghi di culto. Non è più una questione di diplomazia. È un assedio culturale. L'élite accademica considera oggi l'appoggio a Israele come una vergogna, e la solidarietà ai palestinesi come una nuova forma di eroismo intellettuale. Ma le ombre raccontano un'altra verità. Non serve giustificare ogni scelta militare israeliana, né conoscere la storia millenaria della regione per affermare, almeno in questo contesto americano, che chi sostiene Israele, pur con tutti i suoi limiti, difende la civiltà.

E chi invece giustifica Hamas, oggi, si fa portavoce della barbarie.

Io vedo chi radicalizza le università, chi canta la morte dell'America, chi brinda al massacro. Non ho bisogno di essere un esperto per sapere da che parte stare.

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