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Il trionfo del Milanismo operaio

Un proverbio cinese - e i riferimenti a Mr. Li non sono casuali - dice che ai figli lasciamo solo due cose durevoli: le radici e le ali

Il trionfo del Milanismo operaio

Un proverbio cinese - e i riferimenti a Mr. Li non sono casuali - dice che ai figli lasciamo solo due cose durevoli: le radici e le ali. E se delle ali rossonere, da Leao a Theo, i commentatori parlano da un campionato, questo scudetto restituisce ai tifosi del Milan l'altra metà del loro cielo d'inferno: le radici.

C'è una generazione di piccoli tifosi che fino a ieri non aveva mai festeggiato un titolo. E una generazione di giovani cresciuta a pane, Van Basten e Coppe Campioni che non ne aveva mai vissuto uno così. Nemmeno quello di Zaccheroni e Guglielminpietro, il più simile. Perché questo, comunque lo si guardi, è uno scudetto irripetibile. Non il più bello. Inutile fare classifiche, ognuno ha il suo preferito, che solo a ricordarlo dà i brividi: quello della Stella quello delle treccine di Gullit nel sole del San Paolo, quelli di Capello senza perdere mai. Eppure questo è unico. Il primo dell'era «dB», dopo Berlusconi, vinto da under dog, contro ogni pronostico; il primo da società che guarda ai conti specchiati più che alle stelle scintillanti; il primo da squadra inferiore per mezzi e qualità, mai per gruppo e cuore. Il primo vinto di ferocia, fame e volontà.

Ed è qui che si torna alle radici. La squadra della Milano popolare diventata la più vincente al mondo, il club proletario che grazie al capolavoro di Berlusconi si è permesso i migliori campioni, e i trofei più prestigiosi di conseguenza. Trent'anni di gioie irripetibili e supereroi seguiti da un decennio di psicanalisi per riabituarsi alla normalità, ad obiettivi più umani, a giocatori più scialbi dei colori sulle bandiere. Per riappropriarsi di quell'anima Casciavìt da cui ripartire.

Le radici, si diceva. Quelle senza le quali un albero è solo un pezzo di legno. Quelle che hanno bisogno di essere curate con l'impegno e l'esempio da chi le conosce e le sente parte di sé, come Paolo Maldini. Perché oltre alla guida di Pioli, alle mani di Maignan, alla roccia di Tomori, al carisma di Ibra e alla lingua di Giroud, lo scudetto del Milanismo è roba sua, terminale sentimentale di una proprietà seria ma distante anni luce dall'irrazionale passione italiana. Maldini è il botanico che ha innestato il Milanismo in un virgulto societario ibrido, reduce dal caravanserraglio di acquisti squinternati di Bonucci, Higuain & C., attirato dalle sirene del mistero Rangnick, scosso dal divorzio con Boban. Maldini (con Massara, il migliore dei giardinieri) in silenzio ha iniettato Milanismo nella pianta e milanisti - in erba o stagionati - nella rosa. E la cosa ha dato frutti eccellenti.

È questo forse a rendere speciale lo scudetto di ieri: aver dimostrato che nel calcio degli ingaggi disgustosi e dei parametri zero senza riconoscenza né dignità che non meritano di essere citati in mezzo alla festa, c'è spazio per un modello diverso, per una squadra di gente che ha il Milanismo dentro. E la gente lo sa, lo sente con l'orgoglio dei padri che erano in curva contro la Cavese, in B. Alla faccia della Super League, è questo senso di appartenenza - e non i grandi acquisti - a far tornare a vibrare le piazze e lo stadio come con l'Atalanta, a fare affezionare i fan ai giocatori dopo tanto, troppo tempo. Sandro Tonali, che da piccolo scriveva le letterine a Santa Lucia chiedendo la maglia rossonera, ne è diventato il simbolo. Perché in lui si specchiano i sogni di ogni singolo tifoso rossonero.

Poi certo, c'è quel piacere sottile - eufemismo - dell'aver ribaltato gli equilibri del Naviglio. Vincere in rimonta davanti agli «altri» - ai piangina, ai bauscia arrivati dopo - è meglio di comprare Mbappè, perché non ha prezzo. Vincere nonostante quel che non Var, vincere con in campo Messias che faceva il fattorino, vincere senza traditori ottomani iettatori, vincere a sorpresa, giocandosi 5 anni di vita per ogni 90 minuti portati a casa di corto muso. Vincere sperimentando che - dopo tanto oro - non c'è niente come undici anni di modestia per riapprezzare la solidità di ghisa dei successi sofferti e inaspettati.

Con ritrovata, santa umiltà, oggi i Cacciaviti sembrano gioielli.

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