«Chiara incongruenza logica della prospettazione accusatoria». Un teste chiave «frammentario e confuso» protagonista di «mirabolanti oscillazioni». Un pubblico ministero che si affida a «congetture drasticamente smentite» dai fatti.
Non usa giri di parole la Corte d'appello di Milano per fare a pezzi l'inchiesta sugli affari di Eni in Algeria, che portò il pm Fabio De Pasquale a portare sul banco degli imputati per corruzione internazionale l'allora amministratore delegato del colosso petroliero di Stato, Paolo Scaroni, e con lui Eni e la consociata Saipem. Una inchiesta da prima pagina che era già uscita fortemente ridimensionata dal processo di primo grado, che aveva visto l'assoluzione di Scaroni e di Eni «perché il fatto non sussiste». La Procura aveva fatto appello, chiedendo la condanna sia di Scaroni che dell'azienda. Il 15 gennaio la Corte d'appello di Milano aveva respinto su tutta la linea l'appello dei pm e aveva invece accolto il ricorso degli imputati del filone Saipem. Ora le motivazioni di quella sentenza infieriscono su quella che è stata per anni l'indagine-simbolo della Procura milanese, e che i giudici d'appello liquidano come un castello in aria. Al punto che l'appello della Procura contro Eni viene dichiarato inammissibile per la «assoluta genericità della imputazione».
Al cuore della sentenza d'appello, emessa dalla seconda sezione penale della Corte milanese, c'è una rilettura delle dinamiche dei mercati petroliferi opposta a quella teorizzata da De Pasquale e dai suoi colleghi. Lo si spiega bene nel capitolo dedicato a Farid Bedjaoui, colui che per l'accusa sarebbe stato il mediatore della tangente Saipem al ministro algerino dell'energia Chakib Khelil: il cui ruolo invece «può essere ragionevolmente interpretato non come la profferta di servizi illeciti ma quale promozione della propria attività di agente facilitatore, la cui remunerazione non può essere scambiata per una tangente, tenendo conto che molte grandi imprese di avvalgo frequentemente agenti del luogo per operare i paesi molto diversi per cultura e legislazione». D'altronde «nella sentenza impugnata non e stata fornita alcuna precisazione circa le modalità concrete in cui il presunto favoritismo verso Saipem si sarebbe manifestato». E ancora: «risulta manifesta l'assoluta carenza di prova circa le asserite irregolarità procedurali delle gare oggetto di contestazione».
Anche per il reato attribuito a Scaroni e Eni «non è stato dimostrato il pagamento diretto o indiretto verso il pubblico ufficiale straniero», «è mancata la prova dell'esistenza di un accordo corruttivo nè è stato comprovato il compimento di dati contrari ai doveri d'ufficio».
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