Ancora deve muovere un dito, e già lo tirano per la giacchetta. Tempi duri, per Jerome Powell. Jay si muove sul filo del rasoio, ed Occam non è d'aiuto: la via più semplice per far piegare la testa all'inflazione è quella di alzare i tassi, ma non è detto che porti fuori dal bosco. Il Fondo monetario internazionale ha mandato ieri un avvertimento alla banca centrale Usa, ricordandole quanto una stretta al costo del denaro potrebbe «gettare acqua fredda» sulla già debole ripresa economica in alcuni Paesi, per lo più in un momento in cui il debito globale ha toccato nel 2020 i 226mila miliardi di dollari, il più grande aumento in un anno dalla Seconda guerra mondiale.
Per la verità, causa Omicron, la recovery ha perso smalto ovunque. Quindi, fare la faccia feroce al carovita presenta dei rischi, tra cui quello di ritrovarsi presto alle prese con una stagflazione, nonostante da Davos il segretario al Tesoro Janet Yellen abbia assicurato che «il ritmo della nostra ripresa attuale ha superato anche le aspettative più ottimistiche». La Bce ha per ora mantenuto un approccio più prudente della Federal Reserve. Anche perché, sempre da Davos, la presidente Christine Lagarde ha ribadito di ritenere «improbabile» che nell'eurozona i livelli del carovita raggiungano quelli degli Stati Uniti. Bocce ferme, a patto che in marzo le nuove stime sui prezzi non siano da allarme rosso. In tal caso, «agiremo».
La Fed ha invece già varcato da settimane il suo Rubicone con un deciso cambio di spartito. Difficile che faccia retromarcia. Con l'avvicinarsi della riunione di mercoledì prossimo, i mercati hanno però dato segni di un crescente nervosismo che si è propagato ieri all'Europa (-1,84% Milano, allineata al calo dell'Eurostoxx600): il timore è che l'azzeramento del piano di stimoli da 120 miliardi al mese sia accompagnato da un giro di vite di mezzo punto, o forse ancora più robusto. Una mossa choc che, verosimilmente, si tradurrebbe in un'altra carneficina a Wall Street. Lì, l'umore già plumbeo ha virato ieri al nero (-1,21% il Nasdaq a un'ora dalla chiusura, non appena Netflix ha annunciato di aver fallito l'obiettivo di abbonati. Il titolo ha perso in un botto oltre il 20% ed è sceso sotto i 400 dollari, 300 in meno rispetto a due mesi fa. Oltre a creare preoccupazione per le trimestrali, attese la prossima settimana di big come Microsoft, Tesla e Apple, la Waterloo del colosso dello streaming rivela le debolezze strutturali della Borsa di New York.
Dove, come ha sottolineato Goldman Sachs, il 51% di tutti i guadagni accumulati da aprile in poi sono stati realizzati grazie ad appena cinque titoli. Gettonatissimi da quegli investitori retail che ora se la danno a gambe (giovedì scorso hanno venduto titoli per la bellezza di 53 miliardi), vista la malaparata del mercato tecnologico.
Gli analisti si interrogano su quale sarà il livello di resistenza della Fed in caso di prolungati rovesci di Wall Street. Secondo alcuni, l'istituto di Washington potrebbe sopportare una correzione del 20% prima di fare retromarcia sui tassi.
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