Politica economica

L'inflazione Usa frena, la Fed è divisa

A marzo prezzi al consumo a +5%. Ora è più probabile una mini-stretta ai tassi

L'inflazione Usa frena, la Fed è divisa

Negli Stati Uniti l'inflazione morde sempre meno, ma il duello rusticano fra falchi e colombe all'interno della Federal Reserve su quale traiettoria imprimere ai tassi sembra destinato a proseguire. Seppur convinti che il ciclo restrittivo della politica monetaria sia ormai quasi giunto ai titoli di coda, i mercati (+0,38% Milano, +0,23% Wall Street a un'ora dalla chiusura) hanno presto smorzato l'entusiasmo generato da prezzi al consumo che in marzo sono saliti negli Usa del 5% su base annua, ai minimi dal maggio 2021, e dello 0,1% mensile contro il +0,2% atteso. Un raffreddamento che ha consolidato le chance di una stretta circoscritta in maggio allo 0,25% (quasi il 75% di probabilità) e per il mantenimento dello status quo in giugno. Se così fosse, la tornata di inasprimenti iniziata circa un anno fa per contrastare il carovita si chiuderebbe con il costo del denaro attestato al 5-5,25%. Poi, seguirebbe dibattito su quando la banca centrale guidata da Jerome Powell invertirà la rotta.

Le tante variabili in gioco, a cominciare da gas e petrolio (ieri sopra gli 82 dollari), non escludono tuttavia colpi di coda dell'inflazione. È ciò che non si augura Joe Biden, che proprio sul terreno dell'economia si giocherà, nel '24, tutte le carte per strappare altri quattro anni alla Casa Bianca. Carburanti alle stelle e carrello della spesa surriscaldato sono stati per mesi due autentiche spine nel fianco per Biden e motivo di una consistente perdita di consensi. Motivo per cui il successore di Trump ha subito rimarcato ieri che «i prezzi della benzina sono in calo e quelli dei generi alimentari sono diminuiti a marzo» per la prima volta dal settembre 2020. Naturalmente, si enfatizza quanto serve e si omette ciò che disturba. Agli elettori, per esempio, meglio non far sapere che nell'ultimo anno i prezzi dei generi alimentari sono saliti dell'8,5%.

Qualche cautela sulle future mosse della Fed dovrebbe inoltre essere consigliata dall'andamento dell'inflazione «core» (ovvero quella depurata da alimentari ed energia), cresciuta dello 0,4% e del 5,6% su base annua, nonché dal paniere «Super-Core», il preferito dalla banca di Washington, che è perfino un pelo più alto (5,75%) rispetto all'indicatore tradizionale. Sono percentuali che indicano come la parte meno volatile del paniere abbia abbandonato il suo picco, ma in modo tutto sommato marginale. Perché l'arretramento non è stato più marcato? Per due ragioni, la cui origine va cercata nel periodo Covid. Cioè nel momento in cui, da un lato, le imprese hanno gonfiato i margini di profitto approfittando di una domanda forte che non poteva essere assorbita del tutto a causa della scarsità di beni disponibili; e, dall'altro, quando i salari hanno cominciato a crescere per effetto della carenza di manodopera. L'America si è così trovata a far fronte non a una spirale prezzi-salari come negli anni '70, ma a una spirale profitti-salari. Come ammesso perfino dalla Bce, nell'eurozona sono stati invece gli extra-profitti (e non le buste paga) ad aver alimentato il fuoco di un'inflazione accesa dai rincari energetici.

Di fatto, la vischiosità dell'inflazione «core» rischia di essere dirimente nelle prossime scelte della Fed.

Non a caso, il presidente della Fed di Philadelphia, Patrick Harker, ha detto ieri che i tassi devono salire oltre il 5% «e poi rimanere lì per un po'», mentre Austan Goolsbee (Fed di Chicago) è convinto che, «poiché le turbolenze bancarie aumentano l'incertezza» occorre «fare attenzione a non aumentare i tassi in modo troppo aggressivo». Il duello continua.

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