Qatargate

"Mio fratello è un idealista ingenuo. Panzeri? Riverito da tutti"

Il professore romano Giovanni Figà Talamanca: «Non hanno trovato soldi a casa di Niccolò»

"Mio fratello è un idealista ingenuo. Panzeri? Riverito da tutti"

«Ho parlato con Niccolò al telefono. L'ho sentito forte, tranquillo di poter dimostrare la sua innocenza. Sono il suo fratello maggiore, lo conosco da quando è nato, so come è fatto e come ha vissuto. E so che con quanto sta venendo a galla in questi giorni non ha niente a che fare con lui.
Non mi sorprende che conoscesse Antonio Panzeri. Non si poteva non conoscerlo se facevi il lavoro di Niccolò. Era un personaggio di spicco, era il presidente della commissione diritti umani del Parlamento europeo. Ma sono certo che di soldi illeciti Niccolò non ha mai saputo nulla. Vederlo in cella oggi farà piacere ai tanti regimi a cui ha dato fastidio in questi anni col suo lavoro. Non mi sorprende leggere sui giornali il sospetto che l'inchiesta sia stata innescata dagli Emirati Arabi». Per la prima volta dal 9 dicembre, il giorno della retata del Qatargate, parlano i familiari del più defilato, del meno raccontato degli arrestati italiani per associazione a delinquere e corruzione. Niccolò Figà Talamanca è figlio di un grande matematico, segretario dell'associazione No Peace without Justice: una delle ong di cui si parla nell'indagine che ha scosso l'Europarlamento.
Il fratello Giovanni, professore universitario a Roma, ha appreso il 27 dicembre della decisione dei giudici belgi di tenere Niccolò in cella per un altro mese. «É una decisione che non mi aspettavo - dice - abbiamo scoperto che il sistema giudiziario belga consente un uso illimitato della custodia cautelare durante un'indagine che può basarsi anche su elementi astratti. Forse temono che mio fratello, se uscisse, potrebbe accordarsi con altri indagati o possibili indagati, ma davvero non riusciamo a immaginare cosa possa aver convinto i giudici che lui possa essere coinvolto».

Come fa a esserne così sicuro? Chi è suo fratello?
«Niccolò è uno che da quando ha finito il liceo ha scelto di lavorare per quello in cui credeva: la giustizia, i diritti dei più deboli.
Con gli anni, questa missione è diventata un lavoro. Lui è un idealista e un pragmatico, ha lavorato in condizioni difficilissime, dal Kossovo alla Sierra Leone. Senza di lui non esisterebbe il Tribunale penale internazionale, non sarebbero state raccolte le prove dei crimini di Milosevic.
L'associazione che dirige fa questo da anni. Non è un politico, è un tecnico dei diritti umani abituato a muoversi in scenari di guerra».
Ma aveva la sede insieme a Fight Impunity, la ong di Panzeri, «Come altre associazioni che chiedevano un appoggio».

La ong di Panzeri era una società di copertura per attività di lobby occulto.
«Questo è quanto ha scoperto l'inchiesta, a quanto leggo. Ma fino al 9 dicembre Panzeri era un personaggio riverito».

Suo fratello è andato a Doha insieme a Panzeri.
«Sarà perchè ha ritenuto che fosse una opportunità per la causa dei diritti umani, anche per stringere legami utili per il suo lavoro».

E per ottenere finanziamenti?
«No Peace without Justice è una macchina complessa e ovviamente ha bisogno di risorse finanziarie. La principale entrata sono stati per anni i bandi europei. Quando questi stanziamenti si sono ridotti, ha dovuto sopravvivere soprattutto con finanziamenti di soggetti pubblici e privati, uno dei quali è stato George Soros. Ma tutte le entrate sono rendicontate e pubbliche. A casa di Niccolò non sono stati trovati sacchi di contanti».

Gli hanno confiscato una casa a Cervinia.
«Un appartamentino modesto e quasi fatiscente, comprato a prezzi di mercato con un mutuo e movimenti bancari tracciabili: è tutto agli atti. Guardi, conoscendo Niccolò non escludo che possa non essersi reso conto che accanto a lui accadevano cose deprecabili: lui guarda sempre in alto, questo fa parte di lui, di essere un'idealista. Ma in qualche modo si aspettava qualcosa di simile a quanto gli sta accadendo».

In che senso?
«Durante la campagna di advocacy per la vedova di Jamal Kashoggi, il giornalista fatto a pezzi nell'ambasciata saudita a Istambul, si accorse che i servizi segreti lo seguivano passo per passo. Poi quest' anno sono stati presentati i dossier che documentano le violazioni dei diritti umani oltre che la trama cospirativa costruita dagli Emirati Arabi.

Si tratta di paesi molto influenti, ed è alquanto plausibile che abbiano cercato di fargliela pagare. Disse: "Non temo per la mia incolumità fisica, ma il vero rischio è che provino a delegittimarci, a farci passare come corrotti al soldo di un Paese straniero". Sono certo che non ci riusciranno».

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