L'analisi del G

Israele, come sarà l'offensiva finale

L'obiettivo bellico di Israele è la vittoria, ma questa realtà sembra suscitare grande imbarazzo tra amici e nemici

Israele, come sarà l'offensiva finale

L'obiettivo bellico di Israele è la vittoria, ma questa realtà sembra suscitare grande imbarazzo tra amici e nemici.

Anche quando la guerra del Golfo si concluse con un successo inequivocabile, la sua celebrazione l'8 giugno 1991 con una semplice parata a Washington di 8.000 militari guidati dal comandante generale Norman Schwarzkopf fu molto criticata come «militarista». Nessuno dei comandanti che si sono succeduti nelle due lunghe guerre successive in Afghanistan e in Irak ha mai descritto il proprio obiettivo come la vittoria, eppure gli americani sono stati comunque mandati a combattere e a morire. Quando i britannici entrarono in guerra nel 1982 accettando rischi enormi per riconquistare le impossibili e remote Falkland «perché erano britanniche», in Europa tutti preferirono credere che in realtà stessero combattendo per giacimenti petroliferi offshore sconosciuti ma di immenso valore, e quando Margaret Thatcher festeggiò effettivamente la vittoria, i benpensanti britannici provarono un certo disagio indiretto. Ma proprio come la sconfitta demoralizza in modo duraturo, gli effetti della vittoria sono a lungo termine. Gli Eurofighter inglesi hanno recentemente attaccato gli Houthi, che ogni giorno infliggono danni alle economie europee; al contempo, nessun altro Eurofighter europeo è stato rischiato in combattimento. Quella vittoria del 1982 fa la differenza ancora oggi.

Per Israele, il fattore chiave dell'avanzata vittoriosa è la distruzione delle infrastrutture di Hamas. Fin dal primo giorno chilometri e chilometri di tunnel sono stati sgomberati e demoliti; ma poiché in quel dedalo di gallerie sono nascoste le officine balistiche nemiche, un altro indicatore del successo militare è il drastico calo di razzi lanciati da Hamas ogni giorno. Da migliaia a centinaia, poi decine, oggi uno, due o addirittura nessuno.

L'altra direttrice sulla quale si misurano i progressi bellici israeliani è l'uccisione o la cattura di combattenti e leader militari. La CIA, che si è guadagnata imperitura fama prevedendo che Kabul avrebbe resistito senza truppe americane per almeno due anni (sbagliando quindi di due anni), e poi prevedendo con sicurezza la rapida vittoria della Russia in Ucraina nel 2022 (sbagliando almeno di due anni), con altrettanta credibilità continua a dire ai suoi editorialisti preferiti che sono stati uccisi pochi, pochissimi combattenti di Hamas. Il fatto è che un numero incalcolabile di combattenti di Hamas rimane sotto il cemento dei tunnel esplosi o nelle rovine degli edifici distrutti; altri sono stati uccisi in combattimenti registrati, o trovati quando i corpi sono stati esaminati per accertare che non fossero ostaggi israeliani, mentre altri miliziani sono stati catturati o si sono arresi fin dal primo giorno del 7 ottobre. E sapendo che Israele non ha la pena di morte, raccontano candidamente le loro uccisioni in molti video.

A dicembre la stima ufficiale dei morti era di 9.000 vittime, oggi deve essere molto più alto.

Tuttavia, il computo dei caduti non è la maniera più corretta di «misurare» i progressi militari. Quando un combattente viene ucciso, in media altri due o tre vengono feriti in modo significativo: alcuni in maniera talmente grave da renderli inabili al combattimento «per tutta la durata del conflitto», altri in maniera più lieve, tanto da tornare presto a combattere, anche in virtù delle cure mediche ricevute.

Grazie alle meraviglie dell'UNRWA e alla generosità del Qatar e di altri, Gaza dispone di splendidi ospedali e cliniche, e di un numero di medici pro capite superiore a quello della maggior parte dei Paesi ricchi. Ma il fatto che l'UNWRA e gli altri amministratori degli ospedali abbiano prontamente collaborato con Hamas - le truppe israeliane hanno trovato molte prove, tra cui nastri di sorveglianza inequivocabili - significa che ora quegli ospedali sono diventati insicuri per i combattenti di Hamas feriti. I quali di conseguenza hanno meno probabilità di tornare a combattere in questa guerra.

Ciò che è sicuramente vero è che nessuno dei principali leader politici è stato catturato.

Khaled Meshaal, fondatore emerito di Hamas, Khalil al-Hayya, che gestisce la propaganda globale, e il massimo leader Ismail Haniyeh vivono tutti in Qatar, dove i loro sacrifici per la causa sono mitigati da lussi illimitati, che Haniyeh - miliardario - condivide generosamente con almeno un figlio tenuto lontano da Gaza (nelle foto appare stravaccato sul letto di un hotel a 7 stelle). Haniyeh è stato meno generoso con le sue sorelle, Kholidia, Laila e Sabah, che sono tutte cittadine israeliane e vivono indisturbate con i loro mariti beduini. Molti beduini - compresi alcuni nipoti di Haniyeh - servono l'esercito israeliano.

Inizialmente come guide di leggendaria perspicacia, ma ora più spesso come soldati di fanteria.

Soprattutto, Israele non ha ancora catturato Yahya Sinwar, il comandante in capo di Hamas che ha imparato il buon ebraico nella sua prigione israeliana, dove è stato operato con successo per un pericoloso tumore al cervello mentre scontava una pena per molteplici omicidi. L'uomo che ha pianificato l'assalto deliberatamente orribile del 7 ottobre - senza ulteriori strategie né per l'8 ottobre né per i giorni successivi, senza dubbio perché convinto che gli israeliani non avrebbero mai invaso la Striscia, rischiando migliaia di vittime. Al contrario, gli israeliani hanno invaso Gaza e presto hanno raggiunto la lussuosa villa di Sinwar a Khan Yunis. Da qui, seguendo un tunnel di fuga, hanno trovato una telecamera di Hamas per il monitoraggio delle gallerie, che mostrava Sinwar e la sua famiglia che correvano lungo il tunnel.

Molto probabilmente Sinwar si trova ora a Rafah, all'estremità opposta della città di Gaza, a ridosso del confine egiziano, al centro dell'offensiva finale di Israele in questa guerra. Le operazioni di combattimento continueranno ad un certo livello a Gaza, Khan Yunis e dintorni, ma a questo punto della guerra la maggior parte delle forze di Hamas rimaste, gli ufficiali e i funzionari sopravvissuti sono tutti nella zona di Rafah. Che per questo deve essere l'obiettivo dell'offensiva finale di Israele.

Quando la battaglia per Rafah inizierà, assomiglierà solo vagamente ai precedenti attacchi israeliani.

Ci saranno di nuovo i pesanti carri armati Merkava con le loro tettoie di metallo in grado di far pre-detonare i droni esplosivi; ci saranno i «taxi da battaglia» Namer, attualmente il veicolo blindato più pesante e meglio protetto al mondo, che trasporta i soldati con i loro «cappelli da cuoco» mimetici sopra l'elmetto e i loro fucili Tavor, poco più lunghi di una pistola ma con una potenza di fuoco da mitragliatrice; ci saranno i mini-droni ronzanti che trasmettono immagini ai comandanti che li guidano e ad altri più in alto fino al «pozzo», il quartier generale di tutte le forze israeliane.

Allo stesso tempo, altre cose saranno molto diverse.

Tanto per cominciare, Rafah non presenta la moltitudine di grattacieli, palazzi e ville di lusso di Gaza city e Khan Yunis che negli anni i cameraman di Al Jazeera e compagnia hanno accuratamente tenuto evitato di riprendere nei loro video, per sostenere la leggenda di Gaza ridotta a misero campo di concentramento.

Rafa, più che una città è un paesotto, con case modeste come la pensione Snial Hoom, che ho visitato molto tempo fa in tempi molto più tranquilli, e che più recentemente pubblicizzava il suo giardino interno e i suoi balconi - che non ricordo affatto -, e la sua vicinanza all'aeroporto Ben Gurion. Solo 74 miglia di distanza!

In un contesto urbano di edifici bassi, i combattimenti in strada sono molto più semplici, perché non ci sono scantinati a più livelli da cui possono uscire molti combattenti contemporaneamente, né grattacieli incombenti con un numero infinito di postazioni di tiro per i cecchini. Soprattutto, se un edificio deve essere penetrato e ripulito stanza per stanza perché si pensa che vi si nasconda un obiettivo importante, non è necessario un intero battaglione con centinaia di soldati per perlustrare il luogo in tempi ragionevolmente brevi.

A fronte di questi vantaggi tattici, il «terreno» dell'imminente assalto presenta un problema enorme sotto diversi aspetti. Il più ovvio è che l'offensiva israeliana debba essere preceduta dal ritorno a Nord dei profughi - circa un milione di persone - che sono arrivati da Gaza city e Khan Yunis e che ora vivono in tende e capanne.

Lanciare l'ultima offensiva di questa guerra senza prima aver rimandato indietro la maggior parte dei civili sfollati che si trovano ora a Rafah sarebbe la peggiore scelta possibile, perché aumenterebbe a dismisura le vittime, sia civili sia israeliane. In mezzo alla folla i combattenti di Hamas possono usare la loro tattica preferita: sparare contro i soldati israeliani mentre si nascondono direttamente dietro i civili. Sia gli uomini, molti dei quali sembrano proprio combattenti di Hamas, sia i proverbiali «donne e i bambini», che non vengono mai presi di mira dagli israeliani ma che spesso vengono uccisi. Tra parentesi, i prigionieri di Hamas - interrogati su questo punto - di solito non dicono di essere dispiaciuti per i civili sacrificati. Dopo tutto, non sono davvero morti: gli uomini sono diventati shahid, eroi islamici sacrificatisi e diretti verso il paradiso con le loro 72 vergini che i predicatori di Hamas amano descrivere con straordinari e lubrici dettagli, tra cui, per qualche motivo, i seni rovesciati. Nessuna ricompensa attende le loro mogli e figlie morte, ma d'altronde l'islam non ha mai preteso di essere una religione per le donne, a partire dalle moschee a loro interdette.

Ora, poiché l'offensiva deve essere preceduta dal ritorno a nord degli sfollati, la geografia urbana di Rafah è la chiave. Lungo la costa, appena dietro la spiaggia, c'è la strada di Al Rasheed, ormai poco percorribile a causa di tutte le persone accampate lì, e nell'entroterra c'è la strada di Gush Katif, costruita da Israele, che è molto dritta ma piuttosto stretta, per cui l'evacuazione dipenderà in larga misura dall'unico ampio viale a più corsie che porta il nome di Salah al Deen (Saladino), che curva verso nord-est fino a Khan Yunis.

Il suo nome vittorioso dovrebbe essere di buon auspicio per l'ultima battaglia di Israele in questa guerra, perché è solo su Salah al Deen che l'esercito israeliano può dispiegarsi in modo lineare, per formare corridoi multipli, attraverso i quali le persone possono muoversi verso nord a un ritmo ragionevole, ma sotto stretta osservazione da entrambe le parti. L'obiettivo israeliano è ovviamente quello di catturare i combattenti e i comandanti che gli sono sfuggiti scappando a sud, e Salah al Deen è l'unico asse che lo permetterebbe, mentre le altre due strade sono molto meno adatte.

Dubito fortemente che il grosso delle forze rimanenti di Hamas cercherà di fuggire di nuovo, eludendo i filtri longitudinali dei soldati di guardia, i dispositivi di riconoscimento delle immagini e i rilevatori chimici. Quindi prevedo battaglie di resistenza a Rafah.

Il presidente Biden e i migliori amici di Israele in Europa, che continuano a dire che il ritmo della guerra dovrebbe essere accelerato, ma con un uso molto minore della potenza di fuoco, non sembrano essere consapevoli di ciò che stanno effettivamente chiedendo. Quando i soldati a piedi devono combattere attraverso aree edificate senza artiglieria o supporto aereo, le perdite non solo aumentano, ma si moltiplicano: quasi un decimo di tutti i soldati israeliani morti a Gaza fino al 22 gennaio scorso sono morti in quello stesso giorno, nel crollo esplosivo di un singolo edificio.

L'ultima ed enorme complicazione della posizione di Rafah è che Israele non può procedere senza uno stretto coordinamento con i governanti egiziani. Questi ultimi detestano Hamas in quanto propaggine palestinese della Fratellanza Musulmana, che hanno rovesciato per salvare l'Egitto dall'estremismo islamico, e non versano lacrime alla prospettiva di una sua ulteriore distruzione a Rafah. Al contempo, il regime del Cairo teme fortemente l'arrivo alla frontiera di un'ondata di palestinesi in fuga dall'offensiva israeliana, che lascerebbe loro solo due scelte: lasciarli entrare, facendo esplodere il malumore della popolazione egiziana, che dopo decenni di aiuti oggi prova un profondo risentimento per l'ingratitudine palestinese, o trattenerli con il fuoco in quello che si rivelerebbe un massacro prolungato. In Siria, l'uccisione di decine di migliaia di persone da parte di Assad padre nel 1982 e di centinaia di migliaia dal 2011 da parte di suo figlio ha di fatto rafforzato il regime di Damasco, ma la cultura egiziana è molto diversa e qualsiasi omicidio di massa di questo tipo è semplicemente inconcepibile e sicuramente non un'opzione sul tavolo. Questo spiega perché l'Egitto starebbe preparando un'area di detenzione temporanea ben recintata nel proprio territorio, appena al di là del confine, in cui i palestinesi potrebbero ricevere un riparo temporaneo e sostentamento, prima di dirigersi a nord attraverso i filtri longitudinali israeliani.

Il gabinetto di guerra israeliano è altrettanto determinato a dare la caccia ai leader e ai combattenti di Hamas ora ammassati a Rafah, e a farlo senza mettere in pericolo la cooperazione strategica con l'Egitto, che è stata molto utile a entrambe le parti, non da ultimo nella lotta ai terroristi nel Sinai. Una fase che richiede un certo impegno e spiega l'incapacità di entrare rapidamente a Rafah.

La vittoria è dichiaratamente l'obiettivo di Israele, proprio come lo era per la Gran Bretagna nelle Falkland, con la differenza che Londra non sarebbe stata esposta ai bombardamenti se la pericolosa riconquista fosse fallita.

traduzione a cura di Marco Zucchetti

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