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"Io non sono candidato. Fi da partito del leader diventi forza plurale"

Il governatore conferma l'appoggio a Tajani. "Il movimento si apra a tutta l'area del Ppe"

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Aspettando il congresso di febbraio fanno discutere alcune dichiarazioni del presidente della Regione Sicilia Renato Schifani che qualcuno ha interpretato come una sua candidatura. «La mia è un'ottica leggermente diversa da quella di Tajani - diceva Schifani ai microfoni del TgR siciliano - E la porterò avanti com'è giusto che sia in una dialettica di partito nella sede opportuna, che è quella congressuale». Per chiarire lo raggiungiamo al telefono in Val Gardena dove si trova per una breve vacanza posticipata a causa dell'emergenza incendi.

Presidente Schifani le sue parole preannunciano una sua candidatura?

«Niente affatto. L'ho già detto ma lo ripeto volentieri: voterò Antonio Tajani».

E allora in cosa consiste la «diversità» di cui parla?

«Devo fare una premessa».

Prego.

«E la premessa riguarda il futuro stesso di Forza Italia. La nostra prima necessità è di guidare la transizione da partito leaderistico a partito pluralistico. Fermo restando, però, che il simbolo di Forza Italia e il nome di Berlusconi per noi sono irrinunciabili. C'è però una vasta area popolata da persone che fanno riferimento diretto al Partito popolare europeo. Ed è lì in quell'area che dobbiamo cercare nuove aggregazioni»

Per tornare al vecchio modello di Pdl?

«Semmai per dare corpo all'ultima ambizione di Silvio Berlusconi sul Partito repubblicano. Fino a pochi giorni prima della sua scomparsa parlava con entusiasmo dell'aggregazione di altri soggetti dell'area liberale e moderata per un nuovo e più ampio movimento».

Eppure c'è scetticismo tra gli osservatori di cose politiche sul futuro senza il leader carismatico che ha portato al successo Forza Italia, che un potenziale alleato come Renzi chiama ironicamente «Forse Italia».

«Io preferisco muovermi secondo quello che è sempre stato il desiderio di Berlusconi: aggregare e mai dividere. Lo stesso Berlusconi anteponeva la creazione di un'area liberale, riformista e moderata agli egoismi personali e soggettivi. Ora dobbiamo mettere in pratica quel progetto e quella visione di società rinnovandoci in una logica di perimetro».

Ma dove posate lo sguardo, per queste nuove alleanze? Tra i moderati del centrosinistra o a destra?

«Il partito repubblicano pensato da Berlusconi era appunto l'aggregazione del centro moderato e la destra italiana responsabile. Quindi non estremista o xenofoba».

Da più parti si indica però proprio Renzi come possibile (anzi «naturale») interlocutore dei moderati della vostra area.

«A unirci è soltanto l'essere entrambi paladini del garantismo. Tutto qui. Renzi è stato segretario del Pd. E il suo campo di manovra (anche a livello europeo, dove non siede certo tra i popolari europei) è ben diverso dal nostro. Italia viva poi è ridotta al lumicino e non mi pare che Renzi sia in grado di espandere il consenso. Comunque non è una questione di singoli ma di movimenti».

Per esempio?

«Parto dalla Sicilia, come è naturale, ma guardo anche altrove. Penso quindi al movimento di Raffaele Lombardo, con il suo movimento dell'autonomia, e all'area che fa riferimento a Totò Cuffaro. Bisogna però cambiare passo. L'errore storico dell'area moderata e centrista, alternativa alla sinistra, è stata la sua parcellizzazione, con l'eccezione però di Forza Italia che ne ha costituito e costituisce il grande corpo principale».

Le elezioni europee, grazie al sistema proporzionale, costringono i partiti a un gioco di «tutti contro tutti». Episodi come quello legato al libro del generale Vannacci può per esempio logorare il partito della Meloni?

«La leadership di Giorgia Meloni è salda. Lei sa mediare molto bene tra la propria convinzione politica e le esigenze di Stato. Seppur giovane è completa e brilla anche a livello internazionale.

Da lei mi sento pienamente rappresentato sia come cittadino che come presidente della Regione Sicilia».

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