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L'intesa con l'America per ridimensionare Erdogan

Dopo la fuga di Conte, Roma torna spinta anche dagli Usa che non vogliono l’egemonia turca

L'intesa con l'America per ridimensionare Erdogan

Il primo passo verso l'abisso risale alla Conferenza di Palermo sulla Libia del novembre 2018. Mentre il premier Giuseppe Conte corteggiava un generale Khalifa Haftar sbarcato da un Falcon dei nostri servizi segreti e accolto come il figliol prodigo, la delegazione turca lasciava la sala indispettita promettendo vendetta. Ankara non dovette aspettare molto. L'occasione gliela regalò lo stesso governo Conte abbandonando Tripoli al suo destino mentre Haftar l'assediava e i turchi ne garantivano la difesa. Con quella ritirata l'Italia consegnò alla Turchia il ruolo di potenza di riferimento nell'ex-colonia. La difficile risalita, mancata anche da Mario Draghi nonostante i tentativi d'inizio mandato, è ora nelle mani di Giorgia Meloni e del suo governo. La missione di ieri a Tripoli è la punta d'iceberg di una manovra sotto traccia iniziata a metà gennaio con la trasferta ad Ankara del ministro degli Esteri Antonio Tajani. Una visita indispensabile per mettere fine ad un braccio di ferro condotto da posizioni d' inferiorità. Un braccio di ferro che rischiava di trasformarsi in un disastro anche per l'Eni. La sessantennale presenza in Libia della nostra azienda e i rapporti di compartecipazione con la Noc, la compagnia petrolifera libica, non bastavano più a contenere la fame di gas e petrolio di una Turchia pronta a usare la sua influenza nell'ex-colonia per condizionare l'assegnazione dei contratti off-shore da 8 miliardi firmati ieri. Una prospettiva inaccettabile in un panorama di crisi energetica e nell'ambito dei progetti per la trasformazione dell'Italia in un hub del gas africano. Per non parlare delle ricadute che uno scontro prolungato con Ankara, e di riflesso con Tripoli, aveva sul controllo dei flussi migratori e sul ruolo delle imprese italiane attive nell'ex-colonia. Ma la necessità di un compromesso con la Turchia era suggerita anche dalla posizione di un'America riluttante ad impegnarsi direttamente nel Nord Africa, ma pronta, nonostante i non idilliaci rapporti con il presidente Recep Tayyp Erdogan a sostenere l'influenza di una Turchia indispensabile, nonostante le ambiguità, per controbilanciare la presenza russa in Cirenaica. Ritrovate le condizioni per una convivenza con Ankara, a cui l'Eni garantisce in cambio accordi sul fronte delle prospezioni, l'Italia può dedicarsi a ricostruire quel ruolo di alleato preferito degli Stati Uniti in Libia occupato fino al 2018. Un ruolo che la Casa Bianca è pronta a restituirci se sapremo guidare, d'intesa con le Nazioni unite, il processo di stabilizzazione e riunificazione del Paese. Un processo a cui Washington tiene molto in quanto considerato l'unica strada per arrivare alla messa fuori gioco delle milizie della Wagner stanziate ormai stabilmente in Cirenaica nelle vesti di alleati di Haftar. Anche perché la Turchia, pur rappresentando un tappo militare all'espansione russa verso Tripoli resta nella visone di Washington un alleato politicamente inaffidabile soggetto alle insondabili intese tra Erdogan e Putin. In quest'ottica il ritorno dell'Italia in Libia garantirebbe a Washington un ben più rassicurante doppio binario. Senza contare che la nostra capacità d'interlocuzione con leader politici, milizie e tribù, è considerata essenziale per definire il percorso grazie al quale elaborare una Costituzione e fissare elezioni capaci di portare all'insediamento di un governo unico. Il prossimo appuntamento, favorito dal successo della missione di ieri, è per metà febbraio a Washington. Lì l'inviato dell'Onu Abdoulaye Bathily incontrerà quelli di Francia, Usa, Italia, Germania e Regno Unito, con Egitto e Turchia. Lì si deciderà il percorso per la riunificazione della Libia.

E sempre lì si capirà se gli Stati Uniti sono pronti a garantirci il viatico di capofila politico dell'operazione.

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