Letteratura

"La letteratura italiana? È quasi tutta un vespasiano"

Il Garda, il Polesine, il dolore di una vita e la scrittura L'autore: "Per me il processo creativo è una condanna"

"La letteratura italiana? È quasi tutta un vespasiano"

Desenzano. Francesco Permunian è lì, in fondo ai gradini della stazione di Desenzano del Garda, in una mattina di novembre piena di sole. La stazione è la prima meta della «sua» Desenzano, la cittadina della moglie, dove vive dal 1979 e dove ha cresciuto sua figlia, da solo, dopo la morte della donna amata. O meglio, la prima meta è il bagno della stazione, quello del suo Il gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti, 2013): fu Sebald a passare proprio lì dove, forse, si era specchiato anche Kafka nel 1913, e a individuare una scritta a lui riconducibile - «il cacciatore», forse un riferimento al racconto Il cacciatore Gracco - aggiungendovi «nella selva nera». Insomma qui, nel bagno, Francesco Permunian veniva ogni mattina alle 6, ma ora... «Non c'è più, il mio bagno. Hanno fatto un restyling, così lo chiamano, e non ne resta nulla». Che cosa c'entra il bagno? Beh, ciò che lì si combina muove le perversioni di Tito Maria Imperiale, el sior Titìn, «un nano», giornalista dell'«Eco del Garda» e voce narrante di Elogio dell'aberrazione, il nuovo romanzo di Permunian (Ponte alle Grazie): «Il cesso, certo. La metafora è questa. Di disprezzo e irritazione». Ma tutti quegli escrementi? «È il 99 per cento della produzione letteraria italiana. Un vespasiano pubblico». Per spiegare come si arrivi a un Elogio dell'aberrazione bisogna, secondo Permunian, prendere in mano le sue poesie, quelle dell'antologia di demoni Calabiani (Oligo, 2020), e le sue note, cioè le ossessioni, di Il rapido lembo del ridicolo (Italo Svevo, 2021). E poi salire in macchina, girare con lui intorno ai golfi del Lago di Garda, passare per San Michele, da dove guarda Salò dall'alto, e per Tresnico, dove viene a scrivere, fra vigne, cipressi e ulivi, e poi ridiscendere da Gardone, sfiorare il Vittoriale di Gabriele d'Annunzio («Era raffinato l'uomo, eh, ma io ho sempre preferito Gadda e Landolfi») e tornare a Desenzano, alla Biblioteca, nella seicentesca Villa Brunati, dove Permunian ha lavorato fino alla pensione, ha scritto tanti dei suoi romanzi e ha fumato molte sigarette in terrazza con Patrizia Valduga... La sua terra, protagonista dello Stradario sentimentale del Lago di Garda e del Monte Baldo, che uscirà per Oligo nel 2023.

È la sua provincia?

«La letteratura vera è ex-centrica, altrimenti sei il solito letterato... La letteratura è una questione di vita e di morte. Sarà enfatico dirlo, ma per me è così: ho dato la vita».

Come ha iniziato?

«Ho due presupposti: la lirica e il diario. Quando ho fatto Lettere moderne a Padova, la lingua alta, con cui misurarsi, era quella della poesia. Il mondo della letteratura era una aristocrazia e non c'erano le classifiche, una cosa aberrante...».

E le sue poesie?

«Le mandai a due persone. Uno era il fotografo Mario Giacomelli. Avevo visto delle sue foto di un ospizio. Dopo due anni mi telefona: Ho fatto 44 foto dai tuoi testi. Abbiamo collaborato per cinque anni, dall'83. Per me è rimasto un maestro di visionarietà. Poi le mandai ad Andrea Zanzotto».

Risultato?

«Una sera mi telefonò: devo parlart. Usavamo sempre il dialetto veneto. Andai a Pieve di Soligo con la mia Diane e disse: sarebbe ora che la smettessi di scrivere 'ste robe».

Incoraggiante.

«Il problema, disse, era il modo: scrivi con gli occhi velati di lacrime, che cascano sulla pagina e spatasciano tutto, invece devi scrivere col ricordo delle lacrime. Mi diede da leggere Proust e aggiunse: quando lo hai letto, ti mando dalla mia amica Maria Corti che si occupa di romanzi».

Che cosa le insegnò?

«Conta il testo. Non la vita, o l'artista. Altrimenti è la produzione escrementizia, una ferita di plastica: la letteratura consolatoria da intrattenimento per la casalinga mentale che si vuole sentire intellettuale, e allora va ai festival. Maria portò certi zibaldoni che avevo scritto a Rizzoli, unendoli con una voce narrante, come un romanzo».

I suoi diari?

«Il diario mi ha salvato, quello alla Cioran e alla Gombrowicz, in cui ridi sopra le rovine. A me manca il periodo borghese, della ragionevolezza, della costruzione del romanzo standard. Per me il romanzo nasce dalla poesia e dal diario, dopo lo scontro con la realtà, la morte di mia moglie e di una figlia; e, da quelle pieghe del dolore, che si increspano come grotte, nasce il grottesco».

Quello di Titìn?

«L'archetipo è il servo felice del mio primo romanzo, che fu rifiutato 32 volte. Uscì nell'ottobre del 1999 e Doninelli, che abitava nella mia stessa via, ne fece la postfazione. Ho esordito a 50 anni... Grottesco è il mio mondo, purtroppo. A volte vorrei essere anch'io alla Baricco e alla Missiroli: non avrei il reflusso e dormirei sonni più tranquilli».

Invece?

«Invece sono ossessionato dal reflusso e dall'insonnia; e la letteratura ti può proteggere fino a un certo punto, oltre non può: oltre sei alla mercé della brutalità della realtà delle cose. Così diceva la mia amica Amelia Rosselli. Una volta, qui sul lago con lei e Alda Merini abbiamo trascorso una serata di pura pazzia».

Nei suoi libri c'è sempre la follia.

«È il mondo dei diseredati, dei fuori circolo, gente alla Céline, che ha la disgrazia incisa come stigma, e come si salvano? Con la risata, come il servo felice, con quello sguardo laterale e viscido. Come lui, io scelgo di osservare i potenti di lato, sia per una vicinanza sociale ai margini, sia perché questo mi consente di guardare il loro culo. Di demistificare. Del resto io sono nato ai margini».

Nel Polesine dell'alluvione.

«A Cavarzere, il 21 febbraio 1951. L'alluvione viene il 14 novembre. In due giorni scompare una civiltà contadina. Io mi prendo la prima polmonite: il prete mi ha dato gli oli santi due volte. Don Mosè».

Ambizioso.

«Aveva sette amanti, una fissa che gli portava i sigari. Devi sempre mescolare sacro e profano... Quella terra, abbandonata da Dio e dagli uomini, me la porto dietro, nel Dna. E allora mi sono trovato il tempo del confine, una posizione ancipitale, di qua e di là, come il cacciatore Gracco di Kafka, fra i vivi e i morti».

I suoi fantasmini?

«Sono metà morti e metà vivi... È tutta la vita che ci convivo e ci litigo».

La sua lingua è coltissima ma ci sono anche le parolacce e il suo «gardesano-veneto». Come nasce?

«Da due registri. C'è quello realistico, l'occhio alla Busi, e poi c'è un processo, lento e difficoltoso, per cercare di rendere il reale più reale di quello che è. Non mi basta la realtà del romanzo piccolo borghese, così spingo per renderla surreale e grottesca. Quando mi riesce... Questo è il processo creativo, la mia condanna: intonare la mia voce a quella dei fantasmini, che non mi dà tregua. Io mi riconosco nello Zibaldone e nelle Operette morali di Leopardi: da lì vengo e lì sono caduto. Mi illudo di creare un mondo in cui stare bene».

Come entra Pasolini nel romanzo?

«Tito Imperiale esamina la storia di questo regista, Ondino Dell'Onda, che vuole fare un sequel di Salò, in chiave commerciale: svende il mito di Pasolini, lo rende una patacca turistica. Salò è un film gelido, sadiano, infatti in esergo c'è De Sade. Ormai Pasolini è emarginato, Calvino lo attacca, Sanguineti lo detesta. Io amo il Pasolini degli inizi, delle Poesie a Casarsa, e quello finale, sconfitto, disincantato e disincarnato, di Petrolio».

Qualcuno le piace, fra i contemporanei?

«Vitaliano Trevisan, morto da poco. Aldo Busi, Patrizia Valduga».

E ora che il «suo» bagno non c'è più, dove va?

«Vado in panetteria o alla tavola calda e sento i pettegolezzi...

Vado dove trovo la realtà, quella vera, altrimenti come fai a farne la perversione, l'aberrazione? Devi conoscerla, e patirla. In questo libro il titolo è tutto: c'è il disincanto finale, glaciale, che è quello di Salò. Un addio alla vita, testamentario. E basta».

Commenti