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"L'impresa di Fiume fu un evento mondiale. E Lenin copiò la Lega dei popoli oppressi"

Nel suo dettagliatissimo libro sulla presa della città guidata da Gabriele d'Annunzio lo storico ne evidenzia la dimensione internazionale. "Un'azione che fece scuola"

"L'impresa di Fiume fu un evento mondiale. E Lenin copiò la Lega dei popoli oppressi"

È appena uscito D'Annunzio diplomatico e l'impresa di Fiume (Rubbettino, pagg. 940, euro 45) dello storico Eugenio Di Rienzo. Un volume imponente, con ampio utilizzo di fonti trascurate o inedite, sulla dimensione internazionale dell'impresa dannunziana, iniziata con la Marcia su Ronchi nella notte tra l'11 e il 12 settembre 1919, proseguita con la occupazione di Fiume, città negata all'Italia dai trattati di pace, finita con il Natale di sangue del 1920, quando i legionari furono costretti ad abbandonare la città assediata dall'esercito regolare italiano. Il Trattato di Rapallo, appena firmato, aveva stabilito che Fiume sarebbe rimasta città libera. D'Annunzio non poteva restare senza causare all'Italia un problema diplomatico con gli Alleati.

Professor Di Rienzo, al di là della propaganda dannunziana, quali forze si mossero per favorire l'impresa?

«Prima di tutto l'esercito. L'occupazione è iniziata da reparti scelti assolutamente fedeli alla corona. Poi arrivano i volontari, gli idealisti e gli avventurieri. La marina in teoria avrebbe dovuto effettuare un blocco navale. Ma era un blocco assai permeabile. Tra i finanziatori, troviamo grandi nomi e grandi banche: Fiume era ancora considerata un porto di importanza strategica per il commercio».

Questo significa che la politica sottobanco vedeva di buon occhio l'Impresa?

«Si può certamente ipotizzare che Fiume sia stata anche una guerra per procura. Il governo era estraneo, però poteva trattare da una posizione di forza grazie all'Impresa. Di fatto si discuteva di un territorio già occupato da forze italiane».

D'Annunzio era politicamente meno isolato di quanto potesse sembrare?

«Esiste una lettera di Sforza in cui si prefigura a D'Annunzio un finale positivo della vicenda. Fiume resta città-Stato sotto la guida di D'Annunzio. Ma per giungere a questo traguardo, D'Annunzio deve iniziare a smobilitare i suoi legionari».

Non accettò. Perché?

«Pensò a un tranello. Una volta smobilitati i legionari, l'esercito regolare avrebbe potuto deporlo con un colpo di mano. E comunque il suo scopo era l'annessione di Fiume all'Italia».

Lo cacciarono a cannonate.

«Il Trattato di Rapallo era considerato un buon accordo. La libera città di Fiume restava come cuscinetto tra l'Italia e la Jugoslavia. In molti pensavano che alla fine sarebbe tornata in mano italiana. Cosa che accadde».

Che problemi c'erano con la Jugoslavia?

«Minacciava il confine orientale. Era espansionista. Durante la prima guerra mondiale esistevano progetti jugoslavi che fissavano il confine all'Isonzo. Il governo italiano era preoccupato».

Siamo arrivati alla dimensione internazionale dell'occupazione di Fiume.

«Innanzi tutto fece subito scuola. Episodi analoghi, ovvero città di frontiera contese, avvennero un po' dappertutto: Austria, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Carinzia, Stiria, Slesia. Il caso più clamoroso avvenne in Polonia: nell'ottobre del 1920 il maresciallo Josef Pidulski ordinò a una intera Divisione di... ammutinarsi e occupare Vilnius, evitando così il coinvolgimento diretto del governo di Varsavia. Questi scontri di frontiera dipendevano dal fatto che i confini, dopo la guerra, erano stati tracciati con riga e squadra, senza tener conto dei popoli. Vi fu una guerra dopo la guerra, per così dire. Fiume non fu l'unico focolaio».

Intanto in Italia?

«La crisi delle istituzioni procedeva a grandi passi. L'organismo statale si era già disgregato in settori che procedevano molto spesso in autonomia. Regio Esercito, Regia Marina e relativi servizi d'informazione. Ministero dell'Interno con i suoi bureaux preposti agli affari riservati. La divisione era anche in seno all'esecutivo e alla casa regnante. D'Annuzio si era infilato in un gioco complesso. Paradossalmente forse mise d'accordo tutti: chi lo sosteneva sul serio e chi intendeva sfruttarlo fino a quando fosse risultato utile».

Cos'era la Lega dei popoli oppressi?

«Fu una grande intuizione. D'Annunzio intendeva coalizzare tutti i popoli oppressi dal colonialismo delle grandi potenze o sovvertitrici dell'assetto mondiale disegnato a Versailles».

Chi ne faceva parte?

«Irlandesi, Turchi, Egiziani, Catalani, negri degli Stati Uniti, Indiani, Cinesi. Ma anche tutte le nazionalità balcaniche che ora gemono e languon sotto il bastone del brutale serbo. E poi la Russia bolscevica e altri ancora».

Quali sono gli aspetti più interessanti?

«Di sicuro lo sguardo rivolto a Oriente. La Lega fu svuotata di significato da Lenin, che non a caso passava per essere un ammiratore di D'Annunzio. Lenin organizzò, nel settembre 1920, a Baku, il Congresso dei popoli dell'Oriente. In buona parte, i delegati provenivano dagli Stati sui quali puntava anche D'Annunzio».

Spesso si insiste sul fascino esercitato a Fiume dalla rivoluzione bolscevica. Ha senso?

«Fino a un certo punto. D'Annunzio era chiaramente contrario al comunismo. I bolscevichi potevano essere alleati per un tratto di strada, quello rivoluzionario. Ma è vero che molti legionari, anche in ruoli strategici, erano attratti dal caos in Russia e vagheggiavano orde barbariche pronte a rovesciare l'ordine borghese anche in Italia. Bisogna tenere conto che la Rivoluzione sovietica era appena cominciata. Le informazioni non erano moltissime e non si sapeva come sarebbe andata a finire. Ci furono contatti che non sfociarono mai in una alleanza».

I comunisti italiani come si posero?

«Il più ricettivo fu Antonio Gramsci. C'è anche il fatto del mancato incontro tra Gramsci e D'Annunzio. Gramsci voleva stipulare un patto per fare la rivoluzione assieme e impedire l'ascesa del fascismo. Siamo nel 1921. L'incontro fu fermato da Palmiro Togliatti. Ma tutto questo perde d'importanza dopo la Marcia su Roma e il sostanziale ritiro di D'Annunzio nella prigione dorata del Vittoriale».

Le potenze vincitrici presero sul serio la minaccia dannunziana?

«Sì. I documenti del Foreign Office di Londra seguono passo dopo passo l'occupazione, ne analizzano la nascita e le connivenze. Ma soprattutto, dopo il progetto della Lega dei popoli oppressi, schedano il movimento fiumano come uno dei più pericolosi movimenti rivoluzionari attivi fuori e dentro i confini dell'Impero britannico. Fiume è citata in tutti i rapporti sulle situazioni rivoluzionarie e pericolose per l'Impero».

D'Annunzio era un abile politico?

«Più abile di quanto si dica. Basta vedere come seppe mediare fra destra e sinistra fiumana. In quanto alla Costituzione, la Carta del Carnaro, come tutte le grandi carte rimase lettera morta. A Fiume comandava D'Annunzio».

Che rapporto c'è tra l'Impresa e il fascismo?

«L'Impresa non può essere rubricata alla voce Fascismo. A Fiume c'era gente di ogni tipo, inclusi i fascisti o i futuri fascisti. Ma c'erano gli eredi dell'interventismo risorgimentale, del liberalismo nazionale, del sindacalismo rivoluzionario, dell'anarco-sindacalismo e dell'irredenitsmo democratico. La Carta del Carnaro piacque anche a molti futuri antifascisti, a partire da Alceste De Ambris, che la scrisse. Mussolini fu contrario all'Impresa per motivi più che comprensibili: temeva che D'Annunzio diventasse suo rivale e facesse la rivoluzione italiana prima di lui. Fece buon viso a cattivo gioco, ma al momento decisivo si tirò indietro liquidando in modo sprezzante De Ambris, che aveva fatto da ambasciatore».

Perché allora il Fascismo celebrò Fiume?

«Si appropriò della memoria dell'evento e ne saccheggiò i simboli, la liturgia, le parole d'ordine, i metodi della propaganda e in primo luogo del rito populista del discorso dal balcone.

Ma anche di alcuni tratti della politica estera di D'Annunzio: espansionismo mediterraneo, rivolta dei popoli colonizzati dall'imperialismo britannico, guerra per procura contro Grecia e Jugoslavia, l'alleanza con i popoli vinti della Grande Guerra».

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