Mondo

"Non funziona". Così la sinistra svedese smonta il buonismo sull'immigrazione

La sinistra svedese ha cambiato radicalmente posizione negli ultimi tre anni sul tema dell'immigrazione e dell'integrazione. Un cambio di prospettiva profondo rispetto al buonismo di alcuni anni fa

"Non funziona". Così la sinistra svedese smonta il buonismo sull'immigrazione

Giuseppe Prezzolini diceva che se il "progressista è l’uomo di domani", il "conservatore è l’uomo di dopodomani". Ne sanno qualcosa in Svezia, dove il sogno progressista-multiculturale di integrazione e inclusione di migliaia di immigrati si è trasformato in incubo fatto di periferie fuori controllo, per stessa ammissione dei rappresentanti della sinistra svedese. L'ascesa dei Democratici svedesi alle recenti elezioni politiche è la prova che qualcosa nel Paese scandinavo non ha funzionato sotto il profilo dell'integrazione e che le ripercussioni sulla società di un'immigrazione fuori controllo sono tangibili. La Svezia, ha sottolineato lo scorso aprile, fuori tempo massimo, la premier social democratica Magdalena Andersson a seguito dei disordini scoppiati nella città di Malmo, non è riuscita a integrare il vasto numero di immigrati che ha accolto negli ultimi due decenni, portando alla creazione di "società parallele e violenza tra bande".

Fine dell'utopia del multiculturalismo

Sempre Prezzolini affermava che "il conservatore è un freno all'utopia e agli utopisti, che s'innamorano di cose e di idee mai sperimentate e che, quando si realizzano, si rivelano ben diverse da come se le immaginavano". Forse la sinistra sperava che il multiculturalismo producesse una sorta di paradiso terrestre, ma la società liberal-progressista svedese si è presto scontrata con un'amara realtà dei fatti, anche in termini valoriali, con un'immigrazione che ha riprodotto, soprattutto nelle periferie, le dure leggi (conservative in senso islamico) della shari'a, con buona pace dei diritti Lgbt e dell'emancipazione femminile. Per non parlare del salafismo, in costante crescita. Quando la sinistra svedese ha capito l'errore storico che ha commesso, era troppo tardi.

La svolta della sinistra scandinava

"C'è stata una profonda evoluzione del Partito socialdemocratico svedese negli ultimi tre anni" spiega a LeFigaro Tino Sanandaji, l'economista svedese di origine curda che ha scritto "Mass Challenge", citato dal Foglio. Fino al 2019, sottolinea, la posizione ufficiale del partito era che l'immigrazione non avesse alcun impatto, "che fosse necessario salvare lo stato sociale e che coloro che ritenevano i tassi di immigrazione più elevati come la causa del drammatico aumento della violenza fossero dei razzisti". Ora, "la posizione ufficiale dei Socialdemocratici è di ammettere che l'immigrazione contribuisce alla segregazione". La Svezia, afferma l'economista, "è una società del consenso: quasi l'intero spettro politico, a eccezione di una piccola minoranza, era favorevole all'apertura delle frontiere nel 2015 o nel 2016, e l'intero spettro politico, a eccezione di una piccola minoranza, ora sostiene la limitazione dell'immigrazione".

La svolta della sinistra svedese è talmente significativa che la stessa Magdalena Andersson, non più tardi di poche settimane fa, ha sottolineato che lo svedese dovrebbe essere parlato in tutte le aree del Paese, aggiungendo: "Non vogliamo avere Chinatown in Svezia, non vogliamo avere Somalitown o Little Italy". Si potrebbe obiettare che quello svedese è un caso isolato, un'anomalia. E invece no, perché, negli ultimi anni, anche il governo danese di centro-sinistra ha imposto una linea dura nei confronti dei profughi, avanzando, ad esempio, una proposta di legge per obbligare una buona parte degli immigrati che ricevono sussidi statali a lavorare 37 ore a settimana per aver diritto al contributo.

Chissà se la sinistra "fucisa" italiana imparerà qualcosa dai colleghi svedesi e danesi che hanno testato con mano la follia della loro utopia multiculturale o proseguirà nella sua retorica open borders.

Commenti