Letteratura

Un partito di doppiezze. Così le ambiguità a sinistra sono finite in rissa

Danilo Breschi e Zeffiro Ciuffoletti in "Sfide a sinistra" (Le Lettere) mostrano un percorso dilaniato in politica eppure egemonico in ambito culturale

Un partito di doppiezze. Così le ambiguità a sinistra sono finite in rissa

Quando Corrado Guzzanti diede vita alla geniale imitazione di Fausto Bertinotti intento a declamare con eccitazione orgasmica la «teoria del virus» e a invocare scissioni su scissioni capaci di dar forma a microrganismi invisibili, fotografò perfettamente stilemi e cornice esteriore di quel mondo. L'immagine di una sinistra rissosa, dilaniata fra riformismo e massimalismo, si presta da sempre - e con una certa naturalezza - al gioco della satira.

Esiste però un lato cavernoso della questione, più profondo e infido. Nonostante lotte fratricide e scissioni, cambi di sigle, simboli e segretari, c'è infatti un filo rosso che segna quella storia e che va a incidere sull'intero quadro sociale: la conquista del consenso attraverso l'egemonia culturale grazie alla quale è poi possibile proclamare la propria superiorità morale.

Fu Togliatti, alla caduta del fascismo, a render concreto il disegno gramsciano di egemonia, anche se la conquista vera e propria avvenne a partire dagli anni Sessanta grazie alla dipendenza sempre più malata tra partito, media e magistratura. E avvenne grazie ad un percorso di maturazione che si connota di tratti inquietanti di cui ne danno conto Danilo Breschi e Zeffiro Ciuffoletti in Sfide a sinistra (Le Lettere) operando un'ampia ricostruzione analitica delle due strade imboccate dalla sinistra: quella europea, social-democratica o laburista, e quella italiana, dove si intensificò così tanto il conflitto tra riformisti e massimalisti (eternizzato nello scontro Craxi-Berlinguer) da coinvolgere il già fragile sistema politico e istituzionale.

In un contesto del genere si palesò la vera forza del Pci, quella di un partito pedagogico di massa che dettava i tempi dall'opposizione. Azione pedagogica che avvenne per gradi perché aveva necessità di puntelli esterni che si creò da sé depurando innanzitutto la storia. Legittimato dal mito della Resistenza e dall'antifascismo predispose una costante distorsione storiografica capace di smontare alla radice ogni aspetto negativo del comunismo. Poi, riuscendo con la sua capillare organizzazione ad entrare nei gangli vitali del potere e a colonizzare università, pubblica amministrazione e magistratura ma, al contempo, lanciando strali contro la partitocrazia.

Una parte consistente del disastro politico e sociale e della lunga e tormentata storia delle riforme istituzionali, evocate da tutti ma mai realizzate, risiede nella paralisi causata da questa democrazia consociativa e da un sistema bloccato anche dalla astuta retorica del Pci sulla centralità del Parlamento, grazie alla quale era consentito il tacito accordo del diritto di veto all'opposizione e l'obbligo della concertazione delle scelte economiche e industriali con i sindacati.

Una doppiezza iniziata negli anni Sessanta, accresciuta negli anni del terrorismo e della «solidarietà nazionale» e infine strutturatasi con Mani pulite attraverso uno strettissimo legame con importanti procure e giornali che permise franchigie per taluni, pene e reprimende morali per altri.

Il volume prende in carico l'ambiguità della formula del «partito di lotta e di governo» ed elenca una serie sterminata di fatti, anche poco noti, che insieme danno il senso della progressiva degenerazione.

Ne citiamo solo alcuni. Alla vigilia del '68 Giangiacomo Feltrinelli varava una collana intitolata «Documenti della rivoluzione nell'America latina», sfornando manuali di guerriglia e alimentando tutta la retorica del complotto e dell'incipiente colpo di Stato con volumi che inneggiavano alla «resistenza attiva oggi» e alla «controffensiva domani». Nel 1978, il linciaggio dell'Espresso che portò alle dimissioni del presidente Giovanni Leone, richieste ovviamente dal Pci mentre deteneva presidenza della Camera (Ingrao), presidenza della Commissione affari costituzionali (Iotti), Commissione finanze e tesoro (Giuseppe D'Alema, padre di Massimo) e molti vertici di enti statali e parastatali. Ancora: gli appelli di Camilla Cederna (e di molti suoi sodali) che, sempre per l'affaire Leone, aveva parlato di vittoria del quarto potere, e davanti all'arresto di Enzo Tortora aveva dichiarato che il «personaggio non era mai piaciuto». Infine, l'intervista di Enrico Berlinguer a Repubblica nel 1981, in cui si scagliava contro la degenerazione dei partiti che avevano occupato «lo Stato e tutte le istituzioni, le Università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali».

Recitando tutte le parti in commedia la sinistra post-comunista ha colto al balzo anche l'appuntamento con la Seconda repubblica scortando da gendarme il «circo mediatico-giudiziario» costruito intorno alla politicizzazione della Magistratura, alle inaugurazioni disertate degli anni giudiziari, al «Resistere, resistere, resistere» di Francesco Saverio Borrelli, alle correnti, al collateralismo con i partiti. Non a torto Ciuffoletti parla di «colpo di Stato bianco», traslando un'espressione usata da Eugenio Scalfari contro il presidente Francesco Cossiga.

Un colpo, non di Stato, ma sicuramente alla capacità della politica di mettere mano alla fragilità del sistema politico e istituzionale tralasciando gli interessi di bottega.

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