Roma - «Sull’elettorato del Pd è in corso un’Opa ostile da vari lati. E se non ritroviamo rapidamente una fisionomia e un profilo credibili, è destinata ad avere successo». Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro di Prodi e responsabile lavoro del Pd si dice «non sorpreso ma amareggiato» dai risultati del sondaggio pubblicato ieri dal Sole-24 ore.
Si aspettava quei risultati?
«Il calo del consenso al Pd e un forte consolidamento del centrodestra erano nelle previsioni. L’analisi disaggregata del sondaggio ci consente però una lettura più approfondita della tendenza in atto».
Colpisce la disaffezione dei ceti popolari: gli operai votano Pdl.
«Il primo segno della rottura di uno schema tradizionalmente “classista” del voto risale a molti anni fa: nel ’94, nel collegio rosso e operaio di Mirafiori, uno sconosciuto psicologo di Forza Italia (Alessandro Meluzzi, ndr) sconfisse un giovane Sergio Chiamparino. Fu il primo indizio di un cambio di fase dell’elettorato, la fine dell’equazione tra essere operai e votare sinistra. E quando nel ’96 e nel 2006 il centrosinistra vinse, fu perché riuscì a riconquistare una parte di voto giovanile e popolare. Ora questo sondaggio sancisce il venir meno di una nostra capacità di egemonia culturale di cui dobbiamo prendere atto. Sul fronte sociale e del lavoro stiamo lavorando intensamente per recuperare, ma ci vorrà tempo».
Quali sono gli errori e le responsabilità del Pd?
«La spinta popolare che portò Prodi al governo per la seconda volta è rimasta delusa dalle divisioni del centrosinistra e dall’incapacità di affermare e comunicare una linea sociale riformista. E poi l’eccessiva attenzione al risanamento dei conti e ai saldi di bilancio mise in secondo piano gli interventi sul reddito che il lavoro dipendente si aspettava: la scelta di destinare 5 miliardi l’anno al taglio del cuneo fiscale invece di portarci voti di imprenditori ci ha tolto quelli di tanti lavoratori».
Insomma è d’accordo con Paolo Ferrero: tutta colpa del governo Prodi?
«Veramente l’accanimento con cui la sinistra radicale ogni giorno criticava il suo governo fu uno dei vantaggi principali che offrimmo a Berlusconi. Lo dicevo tutti i giorni a Prodi: “Romano, al nostro governo non manca proprio nulla, abbiamo dentro anche l’opposizione”».
Nel 2008, con Veltroni, il Pd ottenne comunque il massimo storico dei consensi.
«Senz’altro un risultato importante, anche se ben diverso dall’idea che veniva alimentata di essere a una “incollatura” dal Pdl. E la politica che seguì lo contraddisse: l’idea del partito “gassoso”, la sopravvalutazione delle primarie rispetto al ruolo di iscritti e militanti, l’errore di non cercare un compromesso tra democrazia diretta e delegata hanno portato a un ulteriore e progressivo sradicamento».
Voi calate e Di Pietro cresce.
«Bisogna prendere atto che il Pd attraversa una crisi molto profonda. La campagna elettorale del 2008 fu condotta in modo brillante, ma la sconfitta ha aperto una crisi e aumentato la difficoltà di una vera fusione tra le diverse anime del partito. Ora è in corso una vera Opa ostile sui nostri elettori: Idv da una parte, Udc dall’altra e sinistra radicale. E rischia di avere successo se non affrontiamo la nostra crisi in modo risoluto».
Come? Serve un nuovo leader, una nuova strategia?
«Evitiamo di ricadere in errori antichi: non ci serve un nuovo leader carismatico, anche perché a forza di dividerci e litigare li abbiamo consumati tutti, temo. Abbiamo bisogno di un segretario e soprattutto di una squadra fatta di competenza e innovazione. E dobbiamo scommettere sulla costruzione di un partito che sappia diventare un amalgama ben riuscito, per parafrasare D’Alema: una fusione vera, e non un nuovo Pds con una spruzzata di cattolici o viceversa».
Intanto però, in vista delle Europee, non vi resta che sperare in un «effetto Veronica»...
«Lasciamo stare. Le questioni familiari non sono un terreno che pratico volentieri, se ne occupi qualcun altro».
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