Così il referendum su Rai e Fininvest del '95 convinse Berlusconi a non gettare la spugna

Le urne furono una svolta: diedero nuovo vigore al Cavaliere, azzoppato dal ribaltone dell'anno prima

Così il referendum su Rai e Fininvest del '95 convinse Berlusconi a non gettare la spugna

Pubblichiamo un capitolo dell'ultimo libro di Alberto Mingardi, «Meglio poter scegliere. I referendum del 1995 e la battaglia per la televisione commerciale» (Mondadori, 420 pagine, 22 euro): l'11 giugno 1995 gli italiani furono chiamati a votare per dodici referendum. Tre riguardavano la televisione commerciale: il risultato fu clamoroso.

I referendum del giugno 1995 incontrano Silvio Berlusconi a poco più di un anno dalla sua discesa in campo e mentre la sua vicenda politica sembra toccare il fondo. Disarcionato in malo modo dal governo, beffato da un alleato a cui aveva consegnato una cospicua rappresentanza parlamentare, la sciatteria con cui si è mosso nei palazzi del potere contraddice la premessa di tutte le sue promesse elettorali: solo un imprenditore può raddrizzare l'azienda Italia. Nonostante lo scintillante 30% che ha ottenuto alle europee del giugno precedente, è opinione diffusa che, con la politica, il plutocrate si sia scottato le dita. Fioccano i te-l'avevo-detto-io. Osservatori tutt'altro che sprovveduti immaginano che, tempo qualche mese, il fondatore di Forza Italia si accomoderà in una teca da museo, lasciando spazio a quello che è evidentemente il leader più attrezzato della destra italiana: Gianfranco Fini. Forse le cose sarebbero proprio andate così se, quell'11 giugno, gli elettori avessero tagliato la testa una volta e per sempre al conflitto d'interessi. Solo che non lo fanno. Parte di loro indubbiamente si reca alle urne per votare su Berlusconi, per difendere il salvatore designato del Paese o per liberarsi di questo flagello della democrazia. Non tutti, però.

L'esito del referendum è difficile da interpretare, con gli schemi stretti dell'ideologia. Seppur risicata, c'è una maggioranza contro l'abolizione del monopolio confederale sulla rappresentanza sindacale. Nel contempo, gli italiani votano a favore dell'abolizione della trattenuta in busta paga per il finanziamento delle organizzazioni sindacali. Respingono l'abolizione del regime autorizzativo per gli esercizi commerciali, ma si pronunciano a favore della piccola breccia aperta nel monopolio Rai. Soprattutto, la somma non fa il totale. I referendum antiFininvest vedono allineati tutti i partiti eccetto il nocciolino duro del centrodestra, temporaneamente sprovvisto della Lega. Il sentimento che porta a votare «contro» qualcuno è spesso più forte di quello che conduce a esprimersi «per». L'elettore berlusconiano può essere spinto ad andare al seggio agitando il drappo rosso di un governo di «comunisti». È verosimile che vada alla guerra per difendere il patrimonio privato del suo beniamino? Semmai i referendum sono l'appuntamento con la storia per la mezza Italia che, a vario titolo, si dice e si dirà «antiberlusconiana». Non a caso li hanno voluti i cosiddetti «movimenti», la società civile di sinistra, insomma le stesse persone che qualche anno dopo faranno il girotondo attorno a palazzo di giustizia. Il nemico è lì, nel mirino. Pronti, puntate, fuoco.

Il comportamento elettorale è spesso misterioso. Questa volta, però, lo è meno di altre. Gli elettori interpretano il referendum come una questione di libertà. Qualcuno dirà che i referendum dell'11 giugno difficilmente disegnano un'Italia più liberale: niente liberalizzazione del commercio, i sindacati ne escono più o meno illesi, molte persone in buona fede riterrebbero che la posizione «liberale» sia stata sconfitta anche nei referendum sulle tv ().

I quesiti sulla televisione dovevano funzionare allo stesso modo: far balenare all'elettore la visione di un Paese deberlusconizzato. Finiscono però per porgli una domanda assai più concreta: preferisci scegliere fra sei canali televisivi, oppure fra quattro o (nella migliore delle ipotesi) cinque? Il comitato promotore del referendum considera la questione presentata in questi termini una forma di propaganda. Che volete ne sappia la Mondaini. Smantellato il duopolio, cento fiori sbocceranno. E chi lo sa. L'elettore ha innanzi a sé qualcosa che c'è: un'offerta televisiva radicalmente mutata negli ultimi quindici anni, che presenta programmi apprezzati da un numero crescente di persone. I palinsesti sono costruiti da professionisti che provano a fiutare i loro gusti. Il telespettatore ricorda che nei dieci anni precedenti è capitato che le televisioni private venissero oscurate. Se vota sì, nel migliore dei casi avrà a disposizione lo stesso numero di reti televisive, con altri proprietari. Nel peggiore, non ci sarà più una televisione privata in grado di tener testa alla Rai. Della gara Fininvest-Rai gli interessa il giusto. Quel che gli interessa è avere qualcosa da guardare, quando torna a casa la sera. Più canali ci sono, maggiori le probabilità di intercettare un film o una trasmissione di suo interesse.

A questo punto s'impone una parola di cautela.

A me pare che, comunque li si guardi, i referendum del 1995 siano stati uno dei veri punti di svolta dell'Italia contemporanea. Se avessero avuto un esito differente, forse Silvio Berlusconi avrebbe davvero gettato la spugna e gli sarebbero mancate le risorse e la tigna per tener duro fra il 1996 e il 2001.

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