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Dalle armi alla finanza. La vera partita del Sultano che fa affari con la guerra

Dalle armi alla finanza. La vera partita del Sultano che fa affari con la guerra

Finché c'è guerra c'è speranza. Un tempo era solo un film con Alberto Sordi. Oggi è la realtà quotidiana interpretata tanto magistralmente, quanto cinicamente, da Recep Tayyp Erdogan. In quel ruolo il presidente turco ha offerto, anche ieri, il meglio di sé. Non pago d'essersi imbucato come terzo incomodo nell'incontro di Leopoli tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres, il Sultano è riuscito a scippare a quest'ultimo il ruolo di «grande paciere» proponendosi come naturale mediatore di un incontro per il cessate-il-fuoco tra il presidente ucraino e Vladimir Putin. Un altro colpo, o un altro bluff, magistrale per un autocrate che sui fronti insanguinati dell'Ucraina gioca una personale quanto spregiudicata partita di poker.

Una partita in cui la mediazione sul grano gli è già valsa il titolo di «salvator mundi», ma in cui esibisce anche carte che nessun altro può vantare. Carte che gli garantiscono non solo il ruolo di alleato indispensabile della Nato, ma anche quello d'interlocutore privilegiato di una Russia con cui, negli anni, ha già contrattato i destini di Siria, Libia e Nagorno Karabakh. E con la stessa perizia si muove nel mattatoio Ucraina. Oltre a lui ben pochi, al di fuori di Joe Biden e Boris Johnson, possono vantarsi d'aver garantito a Kiev armamenti paragonabili a quei droni TB 2 diventati, nell'immaginario ucraino, una delle risorse più preziose assieme ai missili anticarro Javelin e agli Himars a lunga gittata. Con una piccola, ma sostanziale differenza. Mentre le armi americane e quelle inglese non sono costate a Kiev (per ora) una sola «hryvnia», i droni progettati dall'ingegner Haluk Bayraktar, genero di Erdogan, sono stati pagati sull'unghia. E con quali soldi visto che Kiev non ha più lacrime per piangere? Semplice, con i fondi garantiti da un'Europa ricattata a colpi di migranti e con quelli di un'America ancora infuriata per la decisione turca di acquistare da Mosca i sistemi missilistici antiaerei S 400.

E se quella può esser considerata acqua passata di certo non lo è la disinvoltura con cui Erdogan ha trasformato la Turchia, alleata della Nato e teorica pretendente all'Ue, nel più agevole porto franco su cui dribblare le sanzioni che fanno piangere l'Italia e il Vecchio Continente. I numeri parlano chiaro. Negli ultimi dodici mesi l'export turco verso la Russia è passato dai 417 milioni di dollari del luglio 2021 agli oltre 730 milioni nel luglio 2022. E altrettanto dicasi per le importazioni dalla Russia balzate dai 2,5 miliardi di dollari del luglio 2021 ai 4,4 miliardi di dollari del luglio 2022. Il singolare fenomeno coinvolge anche merci e servizi che nel 2019 garantivano all'Italia un fatturato di 7,9 miliardi sui mercati russi. Oggi, guarda caso, una parte di quel fatturato si è spostato verso Ankara. Lì secondo i dati Istat dello scorso giugno si è registrato il maggiore aumento del nostro export con un'inspiegabile più 87% su base annuale. Ankara è diventata, insomma, la grande piattaforma su cui transitano, con una marginale levitazione dei costi, tutte le merci che Mosca non potrebbe, in base alle sanzioni, né vendere, né acquistare.

E lo stesso dicasi per le transazioni finanziare. La collaborazione di almeno quattro banche turche sta consentendo a Mosca di aggirare la diga dello «swift», il sistema controllato dalle autorità finanziarie statunitensi che dovrebbe, in teoria, impedire alla Russia di ricevere e inoltrare pagamenti all'estero. E con la stessa indifferente naturalezza la Turchia continua a importare dalla Russia almeno il 25 per centro del proprio petrolio e almeno la meta del gas utilizzato per far girare il paese. Per non parlare della centrale nucleare di Akkuyu costruita e controllata direttamente da Mosca. Il tutto nell'obbligato silenzio di un'Alleanza Atlantica decisa a strappare a Erdogan un sì cruciale per allargarsi a Svezia e Finlandia e aggirare la Russia sul fronte settentrionale.

Un allargamento nel nome del quale non ha esitato a consegnare alle grinfie del Sultano quegli alleati curdi considerati indispensabili fino a quando il nemico non si chiamava Russia, ma Stato Islamico.

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