
Il pressing della comunità internazionale e dei Paesi «amici» di Israele ha sortito un primo effetto. Dopo 79 giorni senza cibo, acqua, medicine e carburante autorizzati a entrare nella Striscia di Gaza per decisione di Israele, Benjamin Netanyahu dà il via all'ingresso di aiuti umanitari «minimi» per i civili palestinesi e ammette di aver deciso per pragmatismo e per salvare le relazioni con le cancellerie vicine a Israele più che per ragioni umanitarie. Appena quattro giorni fa Donald Trump aveva avvertito: «A Gaza la gente muore di fame». E resoconti informati del Washington Post riferiscono di un ultimatum americano sul fine guerra: «Israele la chiuda o non avrà più il nostro supporto». Un avvertimento ribadito ufficialmente, con una dichiarazione congiunta, da Gran Bretagna, Francia e Canada, pronte ad adottare «azioni concrete», incluse sanzioni mirate, se gli attacchi non verranno interrotti.
I primi cinque camion con alimenti per bambini sono entrati ieri nell'enclave palestinese intorno alle 19 ora locale attraverso il valico di Kerem Shalom, mettendo fine al blocco imposto il 2 marzo e lungo due mesi e mezzo. «Una goccia nell'oceano», commenta l'Onu. Ma pur sempre una svolta attesissima. Annunciata proprio da Netanyahu, che ne spiega le ragioni: «Non dobbiamo arrivare a una carestia, né dal punto di vista pratico, né diplomatico», avverte il leader israeliano, sottolineando di aver deciso dopo che «i più grandi amici di Israele nel mondo» hanno affermato «di non poter tollerare immagini di fame di massa» a Gaza e hanno messo in discussione il sostegno a Israele. Così Bibi conclude che il piano è questione di convenienza: «Per ottenere la vittoria, sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi, prenderemo Gaza, ma non possiamo arrivare alla carestia».
Membri della compagnia privata di sicurezza americana chiamata a garantire la distribuzione di cibo nella Striscia sono arrivati nelle scorse ore in Israele, dopo che anche l'Oms ha ricordato ieri come «due milioni di palestinesi muoiano di fame a Gaza». Il piano per alleviare le loro sofferenze prevede l'istituzione di una zona umanitaria sotto controllo israeliano, dove i civili potranno ricevere aiuti. Quattro i punti individuati. Uno a Sud di Gaza, sotto la linea del corridoio Netzarim, gli altri tre a ovest di Rafah, all'interno del corridoio Morag. L'Esercito israeliano proteggerà il perimetro delle strutture e la società statunitense attiverà sistemi di riconoscimento facciale anche per impedire che gli aiuti finiscano in mano a Hamas. I pacchi saranno consegnati solo ai civili autorizzati. Finora agenzie umanitarie e Onu sono stati esclusi dal piano, ma le Nazioni Unite sono state contattate ieri da Israele.
Molti dubbi restano tuttavia sull'operazione, in corso mentre si intensifica l'offensiva «Carri di Gedeone» per la conquista della Striscia. L'accusa a Israele è di aver privatizzato e militarizzato il sistema di aiuti, nonostante il presidente Herzog parli di «passo fondamentale» anche per «mantenere umanità in questa tragedia». Ventidue Paesi, tra cui l'Italia, chiedono a Israele in una dichiarazione congiunta la ripresa «totale» degli aiuti e di permettere all'Onu e alle organizzazioni umanitarie di operare in modo indipendente e imparziale.
Posizioni condivise dall'Ue e dall'Intergruppo parlamentare per la pace fra Israele e Palestina. Per tutt'altre ragioni, pure il ministro israeliano per la Sicurezza Itamar Ben Gvir, di estrema destra, parla di «grave errore» e profetizza: «Gli aiuti finiranno anche nelle mani di Hamas».
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