La sintesi è lapidaria: «Abbiamo vissuto una lunga ubriacatura». Enzo Carra, al tramonto della prima repubblica portavoce di Forlani, ne sa qualcosa: «Rimasi a San VIttore più di venti giorni, poi una mattina - era il 4 marzo 1993 - mi portarono in tribunale. Attesi in gabbia per ore, quindi il maresciallo disse ai suoi uomini: Questo va su senza manette. In quel momento suonò il telefono e sulla sua faccia si dipinse un disgusto senza speranza. No - si corresse - deve andare con le manette. Ma la mia sfilata con gli schiavettoni ai polsi fu un boomerang e provocò una delle prime crisi di Mani pulite».
Carra, la sua biografia è segnata dal giustizialismo, un po' come quella del Paese.
«Siamo davanti a una grande opportunità. E non direi nemmeno che il clima è cambiato: piuttosto c'è Draghi al posto di Conte e la Cartabia sulla poltrona di Bonafede».
Lei crede alla svolta di Di Maio?
«La politica non è fatta solo di parole».
Si aspetta misure concrete?
«Sul piatto ci sono le riforme. Cominciando da quella della prescrizione che non può durare a vita. Se Di Maio ha cambiato linea, lo dimostri. Non mi interessa sapere se lo fa per opportunismo o perché non trova alternative. L'importante è che sia conseguente: si può trovare un accordo con il centrodestra e con gran parte del Pd per mettere mano a quelle riforme di cui si parla a vuoto da un quarto di secolo e che ora ci chiede anche l'Europa».
Toninelli e altri big del Movimento non condividono la svolta. Si profila una spaccatura?
«È normale che virate del genere provochino dibattiti e polemiche. Piuttosto non capisco Travaglio che parla di sindrome di Stoccolma. Eh no: se devo stare al gioco, Di Maio era il carceriere, non la vittima. I vaffa day li hanno inventati loro».
Questa stagione delle manette, cominciata con lei quasi trent'anni fa, sta per finire?
«Sarebbe bello se la nuova Italia partisse con le riforme della giustizia, così come la prima Repubblica crollò sulla giustizia. Qualche mese dopo la mia sfilata a Palazzo di giustizia, Di Pietro mi telefonò».
E che cosa le propose?
«Di andare a Milano per testimoniare sulla tangente Emimont»
Lei?
«Mi fu proposto uno scambio: sarebbe stata sufficiente una mia dichiarazione generica sulla tangente Enimont, anche senza fare nomi, e la mia posizione si sarebbe alleggerita o risolta. Ma io non sapevo niente, nulla di nulla, e non ero in vendita. Dissi a Di Pietro: Io la condanna me la porto dietro. Meglio quella di dovermi vergognare di me stesso, guardandomi allo specchio la mattina quando mi alzo. In quel momento nella stanza entrarono gli altri del Pool e io replicai lo stesso concetto. Vidi Francesco Greco e Gherardo Colombo turbati e Colombo mi accompagnò fuori. Anni dopo, Di Pietro ministro attraversò tutta l'aula della Commissione lavori pubblici per stringermi platealmente la mano».
Come mai l'Italia si è consegnata a girotondi, proclami e manette?
«È un cortocircuito della politica. È la politica che così risolve o crede di risolvere i suoi problemi, eliminando l'avversario con lo sgambetto».
La magistratura si è adeguata?
«La magistratura ha problemi complessi. Ma ci vogliono i magistrati, così come ci vogliono i politici. Nel '92 era evidente, al di là della crisi di un sistema, la volontà di far fuori i partiti, di scardinarli. Ma ancora nel 2013 sa cosa mi è successo?
Che cosa?
Si profilava l'operazione Scelta Civica. Io, che ero stato fra i fondatori della Margherita e seppur in modo molto critico avevo aderito al Pd, avevo i miei dubbi, per non dire che ero contrario. Allora Casini e don Paglia mi eliminarono dal gioco delle candidature con un semplice riferimento al mio curriculum: Ma con quello che ti è capitato allora, è meglio se stai fuor.
Io sono stato parlamentare per tre legislature, ma non soffro di attaccamento al seggio. Quindi, compresa l'antifona, presi cappello: Ok non vi preoccupate. Ecco, spero che questo sistema stia per cambiare. Su questo misurerò Di Maio e i Cinque Stelle».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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