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Il "modello Lucano" sull'immigrazione è un reato grave. Ma sorprende tutti la pena di 13 anni

Associazione a delinquere, peculato, truffa allo Stato, falso in atto pubblico, truffa per erogazioni pubbliche. Mimmo Lucano è colpevole di quasi tutte le accuse.

Il "modello Lucano" sull'immigrazione è un reato grave. Ma sorprende tutti la pena di 13 anni

Associazione a delinquere, peculato, truffa allo Stato, falso in atto pubblico, truffa per erogazioni pubbliche. Mimmo Lucano, che quando era sindaco di Riace trasformò il paese dei Bronzi in un simbolo internazionale di accoglienza ai migranti, è colpevole di quasi tutte le accuse che gli erano state mosse dalla Procura di Locri, e che avevano spaccato l'Italia. Bastano cinque minuti al giudice Fulvio Accurso per leggere il dispositivo che conferma in pieno l'inchiesta contro Lucano, ed infligge all'ex sindaco una condanna di una pesantezza imprevedibile, andando ben aldilà dei sette anni chiesti dalla pubblica accusa. A Lucano vengono inflitti tredici anni e due mesi di carcere. Settantuno anni di carcere piovono su altri diciassette imputati. «Oggi per me finisce tutto; forse nemmeno a un mafioso...», dice Lucano, provato e quasi attonito.

Il tribunale ha impiegato tre giorni di camera di consiglio per districarsi nell'imponente materiale d'accusa raccolto dalla Guardia di finanza scavando sul lato oscuro del «sistema Riace». Alcuni episodi di malversazioni sono stati limati, altri scompaiono del tutto. Dalla concussione, il reato più grave contestato dalla Procura per un episodio ai danni di un negoziante, Lucano viene assolto.

Ma il risultato finale è comunque una condanna impressionante, soprattutto se si tiene conto che neanche nella ricostruzione dell'accusa a Lucano venivano contestati arricchimenti personali. Qualche vantaggio, a dire il vero, traspariva: le carte truccate per fare avere la carta di identità alla sua donna Tesfahum Lemlem (condannata anche lei a quattro anni), e soprattutto l'utilizzo a fini elettorali del consenso delle Ong cui appaltava l'accoglienza: nelle intercettazioni Lucano le sceglie accuratamente in base al numero di preferenze che sono in grado di garantirgli.

Di fatto, ad uscire condannato è anche, nella sua essenza, il «sistema Riace»: un sistema di accoglienza in cui l'afflato umanitario viaggiava su una lunga serie di violazioni del codice penale, talmente ripetute da rendere impensabile che fossero commesse solo per leggerezza. In sostanza, Lucano usava i soldi pubblici come se fossero suoi, senza rispetto per norme e procedure, e finendo con arricchire solo le Ong del suo cerchio magico, quelle guidate dal suo alter ego Tonino Capone. Sullo sfondo, scrissero i giudici del tribunale del Riesame, «un Lucano afflitto da una sorta di delirio di onnipotenza e da una volontà pervicace ed inarrestabile di mantenere quel sistema Riace rilucente all'esterno, ma davvero opaco e inverminato da mille illegalità al suo interno».

Nulla, nel processo durato oltre due anni, è riuscito a convincere i giudici che il «delirio di onnipotenza» di Lucano fosse privo di enormi risvolti penali, né che i delitti commessi fossero giustificabili in nome dei fini umanitari perseguiti dal sindaco. Il tribunale non concede all'imputato neanche le attenuanti generiche, e anzi ordina a suo carico la confisca di oltre un milione di euro per risarcire i fondi europei distribuiti fuori da ogni norma. Perché, come scrissero i giudici del Riesame, «Lucano - scrive il tribunale - non può gestire la Cosa pubblica né gestire denaro pubblico mai ed in alcun modo.

Egli è totalmente incapace di farlo e, quel che ancor più rileva, in nome di principi umanitari ed in nome di diritti costituzionalmente garantiti viola la legge con naturalezza e spregiudicatezza allarmanti».

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