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Napolitano, Ciampi e Spadolini. Ecco le loro mosse dietro le quinte della Trattativa

La trattativa Stato-mafia dopo la strage di Capaci gestita dagli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno ci fu

Napolitano, Ciampi e Spadolini. Ecco le loro mosse dietro le quinte della Trattativa

La trattativa Stato-mafia dopo la strage di Capaci gestita dagli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno ci fu. Serviva a evitare altre mattanze ma non è reato. La sentenza della corte d'Appello di Palermo fa carta straccia di tutte le illazioni su Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri fantomatici registi di un accordo tra i clan e lo Stato a fini elettorali, in realtà strumentalmente utilizzati per depistare l'attenzione dai veri responsabili. Ma quella sanguinosa pagina di storia resta una ferita purulenta. Chi sapeva che Mori e De Donno avevano chiesto a Vito Ciancimino di fermare il sanguinario Totò Riina? Chi sapeva o li aveva autorizzati? E chi ha incassato, in qualche modo, un dividendo politico-elettorale dalle stragi? Non c'è solo Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale sulle macerie fumanti dell'auto di Giovanni Falcone. Dagli States facevano il tifo per lui ma anche per un Giovanni Spadolini «quirinalizzato», come recita un take dell'agenzia di stampa Repubblica del tempo.

E che dire di Carlo Azeglio Ciampi? Dagli appunti sulle sue agende dal 28 aprile 1993 al 10 maggio 1994, agli atti del processo sulla Trattativa e desecretate nel 2016, l'ex governatore di Bankitalia annotò il pressing di Scalfaro nella nomina al Dap di Adalberto Capriotti anziché del «duro» Giuseppe Falcone. E proprio per ammorbidire la politica carceraria, una delle richieste del leggendario «papello». A suggerire un vice altrettanto morbido come Francesco Di Maggio secondo Ciampi fu l'allora capo della Polizia Vincenzo Parisi. Al neo ministro della Giustizia Giovanni Conso (arrivato al posto di Claudio Martelli) Di Maggio non piaceva, eppure fu Conso stesso a dire a Ciampi di averlo scelto «personalmente» e di aver deciso «in autonomia» di non rinnovare il carcere duro a oltre 300 boss.

Tutto regolare? Non proprio. È con le stragi di Roma e Milano del 27 luglio 1993 che la situazione sembrò precipitare, con il famoso black out di Palazzo Chigi e i timori di un golpe, con un caotico Comitato nazionale per la sicurezza riunito nottetempo che fece emergere l'inadeguatezza degli apparati alla sfida lanciata da Cosa nostra. Il 10 agosto del 1993 la Dia di Gianni De Gennaro teorizzò all'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino (sfiorato dal processo) che anziché una trattativa con i boss sarebbe stata necessaria a linea eccessivamente dura per condurre alla resa di Cosa Nostra» e «una strategia per convincere l'opinione pubblica» che «un'eventuale revoca anche solo parziale sul 41 bis avrebbe rappresentato un cedimento dello Stato», arrivato comunque dopo le bombe del novembre 1993 alle chiese di San Giovanni fuori le mura e San Giorgio al Velabro. Curiosamente i santi con i nomi dei presidenti di Camera e Senato del tempo, Napolitano e Spadolini, unico rappresentante del Pri filoatlantico uscito indenne da Mani Pulite (assieme a Napolitano), come aveva profetizzato Bettino Craxi nell'aula del Palazzo di giustizia di Milano.

E se è vero che la sentenza scagiona l'ex capo dello Stato Scalfaro («È ingeneroso e fuorviante coinvolgerlo») è altrettanto vero che la morte del giudice Falcone sbloccò l'impasse al Colle, liberando il posto di presidente della Camera per Giorgio Napolitano, che sarebbe diventato anche il primo ex comunista al Viminale dopo essere stato il primo comunista europeo ad andare negli States e il ministro degli Esteri ombra del Pci dal 1975 eppure (come Spadolini) risparmiato da Mani Pulite. Sarà lui a succedere a Ciampi nella poltrona più alta del Quirinale e verrà rieletto nell'aprile 2013. Una fumata bianca arrivata al sesto scrutinio, proprio mentre a Palermo il gip Riccardo Ricciardi distruggeva per sempre le registrazioni delle sue conversazioni con Mancino, disposte dai pm della Trattativa. Il sospetto è che anche l'ex capo dello Stato fosse al corrente delle trame, ma non lo sapremo mai. Come ricorda il libro I Diari di Falcone di Edoardo Montolli (Chiarelettere), l'uomo nero dell'intelligence italiana Federico Umberto D'Amato, ufficiale di collegamento tra Italia e Nato già capo del misteriosissimo ufficio Affari riservati del Viminale, era grande fan di Napolitano. Tanto da dire a Giuseppe D'Avanzo su l'Espresso: «Il Viminale? Napolitano era il mio candidato unico. È un uomo freddo, al punto giusto».

E al posto giusto.

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