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Al Nazareno c'è aria di fronda. Ora i draghiani affilano le armi

Aumentano i critici della linea Letta troppo filo 5S. Gori: "Allargare il campo a riformisti e liberali"

Al Nazareno c'è aria di fronda. Ora i draghiani affilano le armi

Il Pd è «il perno della stabilità», dice Enrico Letta alla segreteria del suo partito. Il punto, però, è che a quel perno non si sa più cosa attaccare, dopo aver perso anni a coltivare quell'amicizia particolare con i 5S di Conte, ora travolti dalla frana di una farsa politica durata troppo a lungo.

Sembra prenderne atto lo stesso segretario, che - per evitare critiche e rese dei conti sulla politica di alleanze, e per prendere tempo in attesa di capire cosa resterà del circo grillino - archivia per ora la questione: «Nessuna ingerenza in dibattiti interni altrui», dice alla segreteria, ora «dobbiamo concentrarci sul rafforzamento del nostro profilo identitario» e sui contenuti su cui costruire una eventuale «alleanza progressista», anche se non è chiaro con chi.

In realtà, nel dichiarare «molto difficile» una modifica di fine legislatura della legge elettorale in senso proporzionale (come vorrebbe gran parte del suo partito), Letta dimostra di continuare a ritenere indispensabile l'alleanza con M5s, in vista delle amministrative 2022. E infatti la questione sta già provocando scontri in giro per l'Italia: a Palermo, ad esempio, il Pd locale si era mostrato interessato ad aprire il dialogo anche con Italia viva, centristi etc per ampliare la coalizione per le Comunali, ed essere più competitivi verso il centrodestra. Ma è stato stoppato dal diktat dei grillini e della sinistra: «O con noi o con loro, se no rompiamo tutto e ci candidiamo per conto nostro».

In questo clima iniziano a venire allo scoperto, anche nelle file dem, i fautori di prospettive assai diverse da quelle fin qui coltivate dai vertici, ossia lo scontro alle prossime elezioni tra un «campo largo» di sinistra fondato sull'asse con M5s e il centrodestra.

Ieri il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha provato a spostare i termini della discussione interna: altro che fronte progressista con un alleato «che non ho mai considerato particolarmente affidabile», ossia Conte. Il Pd dovrebbe scommettere sulla leadership di Mario Draghi e «allargare il campo» sì, ma a «riformisti e liberali», inclusa Forza Italia. E darsi come obiettivo una coalizione che, anche dopo le prossime elezioni, possa «chiamare Draghi a completare il lavoro su riforme e Pnrr». Non un «partito draghiano», anche perché il diretto interessato ha più volte chiarito di non avere alcuna intenzione di ripercorrere la strada di un altro illustre premier tecnico come Mario Monti. Ma un deciso cambio di paradigma per il Pd, che per Gori deve guardare ad essere non il «perno» di un fronte progressista, come dice Letta (che ovviamente pensa di diventarne il candidato premier per il 2023), ma il motore di una coalizione liberal-riformista modello «Ursula» che riproponga anche nella prossima legislatura un governo a guida Draghi. A Gori arriva il plauso esplicito dell'ex capogruppo Andrea Marcucci («Condivido l'analisi, il Pd punti a un'alleanza riformista aperta a Fi che sostenga Draghi anche dopo il 2023») ma il sostegno a questa prospettiva è più ampio di quanto appaia, nelle file Pd. E infatti quando la capogruppo al Senato Malpezzi invita a guardare non solo a sinistra e M5s, ma anche «alle forze di centro», arriva la replica del socialista Riccardo Nencini: «Rafforzare l'area riformista serve a dare continuità all'esperienza Draghi».

Per ora si tratta di segnali di fumo, ma nei prossimi mesi sarà questo il terreno dello scontro, anche nel Pd.

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