
Tutto il mondo guardava al Segretario di Stato. E al partito dei cardinali italiani. Il fattore tempo: Robert Prevost è entrato nel totopapa di questi giorni, ma sempre nelle retrovie. Davanti fino a ieri sera c'era sempre lui: Pietro Parolin. Parolin che al suo amico d'infanzia Roberto Ambrosi, oste a Marostica, aveva descritto il proprio «turbamento», come raccontato da Francesco Boezi sul Giornale.
E quella parola, «turbamento», era stata intesa come un presagio. Non è andata così. Parolin è il grande sconfitto, anche se è difficile dire come sia maturata la svolta che pochi si aspettavano. Qualcuno ipotizza che Prevost si sia messo in luce già nel corso delle congregazioni generali, i meeting fra i porporati che hanno occupato il sacro collegio dopo i funerali di Francesco. Probabile che questa analisi abbia elementi di verità. Del resto il pre conclave ha sempre una grande importanza. Ancora di più in questa tornata, con molti cardinali che a stento conoscevano i nomi dei colleghi.
Sfumature decisive. Come l'attivismo dell'arcivescovo di New York Timothy Dolan che ha giocato da kingmaker, puntando subito su quella figura così atipica, al crocevia fra culture diverse: un padre con origini francesi e italiane, una madre spagnola. E poi la dimensione missionaria, ma senza perdere il radicamento negli Usa.
Dolan, secondo molti osservatori, è riuscito a calamitare gli elettori del Nordamerica e del Sudamerica, di più quelli di lingua inglese, o meglio quelli legati al Commonwealth, insomma il vecchio impero britannico, dal Sudafrica all'India e alle Isole Tonga.
Parolin aveva un certo pacchetto di voti, si dice fra quaranta e cinquanta, comunque non sufficienti per raggiungere il quorum. Il problema è che alla prima votazione si è scoperto che un altro candidato, appunto Prevost, aveva catturato nell'ombra molti consensi. I bergogliani si sono presentati a loro volta divisi in diversi gruppi e non hanno saputo proporre un'alternativa: ad esempio il francese, pure molto quotato, Jean-Marc Aveline o il maltese Mario Grech.
Fuorigioco anche Pierbattista Pizzaballa, proveniente da Gerusalemme, una delle zone più surriscaldate della terra, e dunque fatalmente giudicato troppo politico.
Impossibile sapere cosa sia avvenuto nella Sistina. Dopo la prima votazione, qualcosa dev'essere scattato fra i cardinali, particolarmente quelli africani e asiatici.
Devono aver visto in Prevost, peraltro molto stimato anche a Roma, non l'esponente di punta della prima potenza mondiale, ma la miglior espressione di un Occidente che non si crogiola allo specchio ma è in grado di lanciarsi oltre i propri limiti.
Può anche darsi, come ha notato l'agenzia Ansa, che su Parolin abbia pesato l'accordo segreto e controverso raggiunto con il governo di Pechino.
Qualcosa è saltato, il più papabile è uscito, secondo tradizione, dal conclave esattamente come era entrato.
Le voci che si rincorrono dicono che il cardinale vicentino avesse raggiunto un'intesa, una sorta di ticket, con il filippino Luis Tagle. Altro quasi favorito alla vigilia.
Ma alla prova dei fatti l'accordo non ha retto. E Robert Prevost è diventato il Papa del Primo mondo votato dai cardinali del Terzo mondo.
Un capolavoro politico, ma anche un segno della straordinaria imprevedibilità dello Spirito che soffia dove vuole. Scompaginando tutte le previsioni.
E allontanando nel tempo il sogno di riportare un italiano - Parolin, ma magari anche Pizzaballa o Zuppi - a San Pietro. Qualcosa di simile a quanto accaduto nel 2013: allora sembrava fatta per Angelo Scola, ma spuntò Bergoglio.
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