Che fine ha fatto veramente Evgenij Prigozhin? La sua ultima immagine disponibile lo ritrae festeggiato da una folla senza vergogna (un criminale di guerra che viene osannato come eroe della nazione russa) mentre lascia a bordo di un'auto la città di Rostov sul Don. Le ultime notizie che lo riguardano sono il ritrovamento di 43 milioni di euro nella sua sede pietroburghese e quelle diffuse dal dittatore bielorusso Lukashenko e confermate dal suo padrone Putin: il capo della brigata mercenaria Wagner ha concordato di trasferirsi in Bielorussia, in cambio dell'impunità per gli uomini che lo hanno sostenuto nella sfida di 24 ore ai vertici del Paese e di non si sa cosa per lui stesso. Ma Prigozhin è sparito, per ora, nel nulla.
Un finale inatteso e strano per un'avventura che appena sabato scorso sembrava potersi concludere addirittura con un collasso improvviso del regime putiniano. E che lascia aperti numerosi interrogativi. C'è chi specula che Prigozhin abbia ancora un futuro politico, magari dopo essersi decantato per un po' a Minsk, oppure militare ancora come capo della Wagner, forse in Africa. Ma a questo punto, la considerazione più sensata sembra essere la seguente: Prigozhin ha peccato di presunzione, ha fallito e ora la sua vita non vale un centesimo bucato. Per una serie di valide ragioni: la prima riguarda l'umiliazione che ha inflitto a Putin, «vedendo» il bluff della solidità inattaccabile del suo potere politico e militare, e costringendolo a pietire in tv dai cittadini russi unità e fedeltà al regime davanti alle minacce di un inaudito assalto alla capitale. Salvatosi all'ultimo minuto con l'aiuto di una figura politicamente insignificante come Lukashenko, Putin deve ora urgentemente ristabilire la sua posizione dominante e può farlo solo eliminando Prigozhin dalla scena.
L'eliminazione potrà essere fisica (il capo di Wagner si aggiungerebbe a una lunga lista di figure scomode assassinate su ordine di Putin), oppure metaforica, riducendolo al ruolo di prigioniero di fatto in quel protettorato dell'impero russo controllato dal vassallo Lukashenko. Il quale tale rimane, anche con un Putin indebolito, e difficilmente potrà (ammesso e non concesso che Prigozhin si trovi davvero in Bielorussia, o che ci rimanga) svolgere sul rivale dello «zar» un ruolo diverso da quello di carceriere su procura russa, che già esercita sull'intero suo disgraziato popolo. Vale la pena ricordare che il triste destino della Bielorussia, ridotta a base militare russa, usata per il dispiegamento delle atomiche di Putin, e ora terra di relegazione per i nemici del dittatore di Mosca, è lo stesso che sarebbe toccato all'Ucraina se si fosse arresa come raccomandano i nostri «pacifisti».
L'esilio di Prigozhin apre poi il tema del destino della Wagner. Putin non può più fidarsi del suo capo, ma ha ancora bisogno di quell'esercito privato: se non in Ucraina, certamente in Africa dove serve come preziosa longa manus politico-militare di Mosca e come strumento per rapine di materie prime e scambi commerciali sottobanco, per aggirare le sanzioni occidentali. Difficile dunque che Prigozhin possa continuare a comandare la Wagner dalla Bielorussia, ma altrettanto difficile che Putin scelga di obliterarla.
Un'ultima valida ragione per cui la vita di Prigozhin sembra ormai valer poco ha a che vedere con la Cina. Xi Jinping ha il terrore di dover assistere al crollo del regime di Putin: è un riflesso di quanto accaduto in piazza Tienanmen a Pechino nel 1989, quando la dittatura comunista cinese rischiò di collassare per una protesta popolare innescata dalla debolezza dell'Urss di Mikhail Gorbaciov.
Non è certo un caso se, nelle stesse ore in cui veniva trovato un compromesso per neutralizzare la minaccia di Prigozhin, aveva luogo un incontro a livello di ministeri degli Esteri tra russi e cinesi: il messaggio del partner dominante all'alleato Putin, su cui tanto ha investito per costruire un nuovo ordine mondiale, è che il capo di Wagner non deve più poter nuocere.
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