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Quei leoni del Nord consumati dalla politica

Quei leoni del Nord consumati dalla politica

C' è una nota di dolcezza struggente nella sguardo di Umberto Bossi, il vecchio Leone del Nord che si è rivisto alla Camera per le elezioni del presidente della Repubblica. Vale un romanzo la toccante immagine in bianco e nero che ha postato sui social il giornalista Massimo Maugeri: il Senatùr sulla sedia a rotelle salutato con affetto da Pierluigi Bersani nel cortile di Montecitorio.

Bossi in privato poteva stupire per bonarietà e timidezza, ma in realtà era il Barbaro spaventoso che si era mangiato la Prima Repubblica con picconate che avevano sbriciolato Dc e Psi. Nella foto con Bersani fuma seraficamente il sigaro, con la rassegnazione dell'anziano fuoriclasse escluso dai giochi che è già passato alla storia e non ha bisogno di affermarsi per il presente. Il fondatore della Lega ha 80 anni, mentre l'ex segretario Pd Bersani ne ha dieci di meno. Eppure anche lui si è ritagliato il ruolo della vecchia gloria, sopravvissuto ai veleni dei democratici e all'emorragia cerebrale che lo colse nel 2014. Prima di infilarsi in una deriva anti berlusconiana e di veterocomunismo di ritorno, il deputato di Leu aveva incarnato il moderno ministro riformista, in sintonia con il Nord, produttivo che sfornava privatizzazioni e liberalizzazioni. Ormai recita il ruolo del saggio rispettato a destra e mal tollerato tra i dem, e ha già annunciato che non si ricandiderà a fine legislatura. Entrambi, Umberto e Pier Luigi, hanno indossato le maschere popolari della Seconda Repubblica tra battute feroci e un gramelot linguistico intriso di sfumature padane.

A sinistra Bersani è passato inosservato, sopportato come un soprammobile ereditato da faide interne che hanno visto in pochi anni la fuoriuscita dal Pd di tre segretari (D'Alema e Renzi i compagni di disavventure). Un brontolone fuori dal dibattito che al massimo può regalare un titolo brillante agli intervistatori. Invece nel mondo leghista il rientro di Bossi è stato vissuto con emozione, una macchina del tempo che ha riportato tutti a vent'anni fa, quando Salvini era un giovane consigliere comunale senza felpa e senza barba. Ieri mattina il Senatùr ha coronato il suo dissestato percorso interno alla Lega negli ultimi anni con una standing ovation che l'ha commosso. E per induzione i delegati leghisti sono esplosi in un applauso fragoroso per Silvio Berlusconi, la tessera numero uno esterna della Lega, l'alleato di ferro che faceva ingelosire Fini per il suo rapporto strettissimo con Bossi, Calderoli e Maroni. Tanto che all'epoca si diceva malignamente che la sede del governo non era Palazzo Chigi bensì Arcore, con le cene del lunedì sera. Anche il Cavaliere è fuori dalla partita del Quirinale, ma il Carroccio 4.0 di Salvini l'ha inserito di diritto nel Pantheon verde. Bisogna sempre guardare in avanti, ma alla fine non è così triste soffermarsi su un'istantanea in bianco e nero.

La sottile differenza tra il ricordo e il reducismo.

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