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Rischio boom del "nero". Il salario minimo serve solo al 12% dei lavoratori

Analisi della Cgia: "Dare 9 euro l'ora a tutti costerebbe più dei 7 miliardi finora stimati"

Rischio boom del "nero". Il salario minimo serve solo al 12% dei lavoratori

Il salario minimo è un arma a doppio taglio. È quanto sottolinea l'Ufficio studi della Cgia nel suo ultimo report nel quale, pur non bocciando a priori la proposta approvata da Commissione e Consiglio Ue, invita a non applicarlo ai contratti di apprendistato per non appesantire questo istituto.

Il salario minimo legale a 9 euro lordi l'ora, evidenzia la Cgia, dovrebbe inoltre ricomprendere al suo interno il Trattamento economico complessivo (Tec) e non la paga oraria. Il Tec, infatti, oltre alla retribuzione lorda include anche il rateo delle mensilità aggiuntive (tredicesima e quattordicesima), del Tfr e della quota ferie, permessi ed enti bilaterali. Se il calcolo della retribuzione oraria tiene conto anche di queste voci, come ha notato Confindustria, gli occupati dei settori industriali, dell'artigianato e del commercio già oggi ricevono una retribuzione lorda oraria superiore a 9 euro. Senza contare che, soprattutto al Centro Nord, la sottoscrizione tra le parti sociali dei contratti di secondo livello (territoriali e/o aziendali) consentono alle buste paga dei dipendenti di essere ancor più pesanti.

Molto chiari i dati del Cnel di fine 2021: i 933 contratti vigenti interessavano 12,5 milioni di dipendenti ma, tolti i 128 più applicati e siglati da Cgil, Cisl e Uil, I restanti 805 contratti, siglati da organizzazioni meno rappresentative e applicati a 1,5 milioni di lavoratori (12% del totale), spesso praticano condizioni economiche al ribasso. Il salario minimo fondato sul Tec troverebbe in quei casi una giusta applicazione contro il dumping. Una sua estensione generalizzata, invece, rischia di creare nuove sacche di sommerso. Secondo le stime Inapp, l'applicazione del salario minimo orario per legge a 9 euro lordi comporterebbe un costo aggiuntivo in capo alle imprese di 6,7 miliardi di euro all'anno incidendo su 2,9 milioni di lavoratori. L'Ufficio studi della Cgia ritiene sottostimato l'impatto perché non terrebbe conto dell'effetto trascinamento sui livelli retributivi immediatamente superiori.

Tra gli istituti da salvare anche l'apprendistato. Gli ultimi dati Istat, segnalano che in Italia gli apprendisti sono circa 700mila apprendisti assunti con un contratto di lavoro finalizzato alla formazione. La retribuzione mediana oraria per i più esperti è di circa 9,61 euro ma il 28% di essi (i meno esperti) ha una retribuzione mediana di 6,59 euro. Alzare la retribuzione minima renderebbe l'istituto inutile per le imprese che, in cambio di sgravi contributivi e fiscali, si occupano di formare giovani inesperti per un periodo che varia dai tre ai cinque anni.

Sarebbe invece più opportuno, osservano gli artigiani mestrini, ridurre il cuneo, in particolar modo la componente fiscale in capo ai lavoratori dipendenti. Il peso del fisco sulle retribuzioni è pari al 60%, un onere di cui si fanno carico le aziende che agiscono da sostituti d'imposta. I rinnovi contrattuali, prosegue la Cgia, dovrebbero poi dar luogo a una decisa detassazione di tutte le indennità (lavoro notturno, lavoro festivo e prefestivo) e di tutti i premi definiti da accordi aziendali o interaziendali (filiere e territori) in modo tale da incidere positivamente sulla produttività.

Ma proprio la questione produttività è rimasta ai margini del dibattito politico. La Cgia ha, infatti, evidenziato come «la selezione naturale compiuta dal mercato con l'avvento della globalizzazione abbia colpito soprattutto le grandi industrie» come un tempo erano Montedison, Montefibre, Italsider e Olivetti. Aver perso la chimica, l'informatica e sostanzialmente la siderurgia (considerate le vicissitudini dell'ex Ilva) ha consegnato il Paese a produzioni con valore aggiunto limitato.

Come limitato è stato l'avanzamento delle retribuzioni nell'ultimo trentennio.

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