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La scommessa di Giorgia può essere vincente ma i primi da convincere saranno gli elettori

Il Paese ha bisogno di governi stabili e la premier può contare sulle sue doti strategiche. Bisogna mettere in conto il referendum: l'opposizione non le farà sconti

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Che il Paese abbia bisogno ancor più di ieri di fronte all'evolvere del quadro internazionale e delle conseguenze sul piano economico, di governi più stabili e, quindi, di una riforma istituzionale, è un dato incontrovertibile. È un atto di responsabilità, più che una scelta politica. Nello stesso tempo è anche un tema prioritario nella logica di una coalizione che vuole portare a casa dei risultati e che ha nel suo Dna fin dai suoi albori l'elezione diretta di chi governa. E paradossalmente c'è un dato di realismo in questa sfida. Il successo in economia è determinato dalla capacità del governo ma condizionato ancor di più dalla congiuntura: se scoppiasse un'altra crisi energetica un premier potrebbe avere anche Mario Draghi seduto sulla scrivania di Quintino Sella ma il Pil sarebbe destinato inevitabilmente a scendere e il debito a crescere. La riuscita di una riforma istituzionale, invece, dipende in buona parte dalla bontà del progetto e dalle doti strategiche del presidente del Consiglio.

La scommessa di Giorgia Meloni presenta, però, non poche incognite. Intanto il premier deve mettere in conto che si andrà sicuramente al referendum: ad un'opposizione divisa e inconcludente come l'attuale, non pare vero di poter sfruttare l'occasione di una campagna referendaria contro la svolta autoritaria, magari ritirando fuori tutto l'armamentario anti-fascista, per dare lo sfratto all'inquilina di Palazzo Chigi. Né il premier può fare affidamento sulla sua intenzione di non dimettersi anche in caso di sconfitta: è fatale, infatti, che nel tempo il tutto si trasformi in un referendum sulla figura della Meloni. L'esperienza di Matteo Renzi docet.

Ecco perché il coro di chi dice «chi te lo fa fare?» ha dei fondamenti. Eppure malgrado i rischi la Meloni non può sottrarsi: tirarsi indietro sarebbe in ogni caso una sconfitta. Il problema ora è come gestire la sfida. Ci sono tre ipotesi strategiche. La prima è quella di una riforma condivisa: è difficile che porti a qualcosa perché un'opposizione di questo tipo, con simili riferimenti politico-culturali, non concederà mai alla Meloni il fregio di portare a casa l'elezione diretta del capo del governo. Senza che si conoscano ancora chiaramente i termini della riforma già si è messo in marcia un battaglione di costituzionalisti che fanno a gara per criticarla. La seconda è quella di prendere a modello il sistema in vigore in una grande democrazia occidentale che preveda l'elezione diretta del vertice istituzionale (vedi il presidenzialismo americano o il semipresidenzialismo francese): a quel punto l'allarme per una svolta autoritaria sarebbe a dir poco ridicolo. Ora, però, è difficile che l'esecutivo, dopo aver avanzato una proposta, possa tornare indietro. Resta l'ipotesi di una riforma originale, di un modello italiano, in cui è prevista l'elezione diretta del presidente del Consiglio (caso unico in occidente). Un'operazione ambiziosa che per riuscire deve essere convincente. Non deve essere il frutto di compromessi tra presente e passato: dire che il capo dello Stato manterrà le stesse prerogative di oggi di fronte ad un premier eletto direttamente dei cittadini, ad esempio, è una corbelleria visto che la riforma punta espressamente ad evitare governi tecnici emanazione del capo dello Stato (tipo Dini o Monti). Semmai deve prevedere meccanismi efficienti e contrappesi che diano reali garanzie. Alle opposizioni, alla maggioranza visto che per essere approvata ha bisogno dei voti dell'intera coalizione, ma soprattutto al Parlamento.

Insomma, deve persuadere in primo luogo gli elettori.

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