Economia e finanza

Il Sultano e Ankara, 20 anni di strapotere

I giovani, i rapporti con Mosca, il ruolo dell'Occidente: tutte le incognite post-voto

Il Sultano e Ankara, 20 anni di strapotere

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La storia difficilmente si ripete. Le sue date sono però simboli potenti. Vent'anni fa il presidente turco Recep Tayyp Erdogan cambiò il volto della Turchia archiviando quel «kemalismo» che ottanta anni prima aveva chiuso per sempre la Sublime Porta e imposto un forzato laicismo ai resti dell'Impero Ottomano. Le elezioni presidenziali di domani - convocate vent'anni dopo la vittoria del 2003 e un secolo dopo la proclamazione della Repubblica di Ataturk - minacciano invece segnare la fine di Erdogan. Ma anche di spingere la Turchia verso un baratro irto d'incognite. La corruzione, messa in luce da un terremoto che ha sbriciolato quartieri costruiti in spregio a qualsiasi norma anti-tellurica, ha messo a nudo l'avidità di un settore edile cresciuto con la protezione del potere. L'economia, dilaniata da un'inflazione che ha superato l'80 per cento, contribuirà a spostare i voti di chi è più sensibile al valore dei risparmi che non alla rinascita islamica promessa dal Presidente. Un paradosso per un Sultano che vent'anni fa trascinò la Turchia fuori dalla crisi regalandole un decennio di eccezionale benessere. L'altro paradosso sono i giovani. Nel 2003 l'aspirante premier prometteva di farli crescere «devoti». Oggi, stando ai sondaggi, solo il 18 per cento di chi ha tra i 18 e i 25 anni vota per lui, mentre una larga maggioranza sogna di abbandonare la Turchia e preferisce i «social» alla moschea. Ma i giovani non sono l'unica sommessa fallita.

Alla fine i gesti simbolo di questo ventennio - come la rimozione del divieto del velo per le donne o la sfida di Santa Sofia ritrasformata in moschea - continuano a soddisfare solo un terzo dell'elettorato a maggioranza musulmana. E non bastano a compensare il crescente disagio generato dalla progressiva soppressione di libertà, diritti civili e regole democratiche. Proprio la pesante repressione ha spinto sei forze d'opposizione assolutamente eterogenee a formare l'improbabile coalizione con cui i repubblicani kemalisti e alcuni gruppi islamisti guidati da fuoriusciti del partito del Presidente sperano di metter fine al regno di Erdogan.

Il tutto sotto la guida del repubblicano Kemal Kilicdaroglu, un ex-funzionario statale che ha trasformato il proprio grigio rigore in un simbolo di moralità da contrapporre agli eccessi di un autocrate sempre più isolato in un palazzo dalle mille stanze. Ma dietro ai fattori interni covano quelli, ancor più pesanti, di un ventennio che ha trasformato un paese chiave della Nato nel miglior interlocutore di Mosca. Il tutto mentre Ankara mandava i suoi soldati a combattere in Libia e Siria e tornava ad alimentare i venti di guerra con la Grecia. Proprio per questo gli Stati Uniti sarebbero i primi a brindare alla una sconfitta dell'«alleato» Erdogan.

E anche l'Europa, costretta a sborsare sei miliardi per non vedersi sommersa dai migranti difficilmente rimpiangerebbe il Sultano. Ma in tutto questo l'incognita più pesante riguarda gli effetti del voto. Un risultato favorevole ad una fragile opposizione non cancellerà il totale controllo che Erdogan esercita su Forze Armate, servizi di sicurezza, magistrati e sistema industriale. Con questi assi in mano e il consenso di chi - non solo a Pechino a Mosca, ma anche in Africa e Medioriente guarda con fastidio alle regole occidentali - il Sultano potrebbe decidere che il voto non va sempre rispettato.

E a quel punto c'è da chiedersi chi, da Washington a Bruxelles, si prenderebbe la briga di correre in soccorso di Kilicdaroglu e della sua disparata opposizione.

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