Guerra in Israele

La tregua fragile che non piace a nessuno

I due nemici hanno interesse a continuare il conflitto ma non possono sottrarsi al tentativo

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Cosa succederebbe in Medio Oriente il giorno dopo la possibile intesa per una tregua a Gaza è la classica domanda da un milione di dollari: nessuno in realtà sa rispondere, ma non mancano gli elementi per tentare delle previsioni. Il primo da considerare è l'obiettiva fragilità di questa ipotetica intesa, che potrebbe durare l'espace d'un matin perché nessuna delle due parti in realtà la vuole, sia Hamas sia Netanyahu hanno interesse a continuare il conflitto. In particolare, le poche decine di ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas costituiscono la vera polizza d'assicurazione sulla vita dei miliziani islamisti palestinesi, mentre se davvero la guerra di Gaza finisse il futuro politico del premier israeliano potrebbe avere i giorni contati.

È però altrettanto evidente che le pressioni esterne sui belligeranti nella Striscia sono talmente forti da sospingerli comunque in questa direzione. Il che non significa che - anche se una tregua venisse siglata - Hamas sopravviverebbe a Gaza come entità politica e militare: Netanyahu su questo punto è stato anche ieri chiarissimo. Ha più senso, dunque, spingersi con l'immaginazione oltre il momento di una vittoria militare israeliana. A quel punto, Gaza potrebbe ritrovarsi semplicemente occupata in armi da Israele, con prospettive quanto mai incerte anche sulla gestione dei civili che la abitano; oppure potrebbe essere tentato un autogoverno palestinese affidato alle forze più disposte a collaborare con Israele, in vista di un futuribile accordo per la nascita di uno Stato indipendente da far coesistere con quello ebraico; o ancora, potrebbe instaurarsi nella Striscia, su input Usa, il cosiddetto protettorato arabo, ovvero un governo non più di autonomia palestinese affidato a potenze ricche e ben disposte verso l'Occidente e lo stesso Israele come l'Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo (e magari l'Egitto).

In quest'ultima ipotesi, Riad assumerebbe un ruolo di tutore all'interno di un contesto di riconoscimento di Israele, a conferma del fatto che alle principali potenze arabe interessa molto di più la stabilità regionale che la causa palestinese al prezzo di una guerra perenne. Contesto che segnerebbe la fine degli effetti destabilizzanti prodotta dallo choc del 7 ottobre, la sconfitta dell'Iran che è il vero burattinaio (d'accordo con Russia e Cina) dell'attuale conflitto regionale, e concederebbe a Joe Biden un successo diplomatico di cui ha un enorme bisogno anche per motivi elettorali.

Tuttavia, è interesse di Iran, Russia e Cina che l'instabilità in Medio Oriente continui, sia per impedire il saldarsi dell'intesa tra Israele e il mondo arabo più pragmatico (Arabia ed Emirati in testa) che per danneggiare l'influenza americana nella regione. Le tre potenze potranno dunque fomentare il conflitto nel nord di Israele attraverso Hezbollah, così come nel Mar Rosso per mezzo della fanatica milizia filo-iraniana Houthi. Perfino il presidente turco Erdogan sarà tentato di giocare le sue carte per non perdere il ruolo di protettore dei palestinesi in alternativa ai sauditi, un protettore che - come si è visto anche di recente con la visita del capo di Hamas Ismail Haniyeh ad Ankara - a differenza del reggente di Riad Mohamed bin Salman non si fa problemi a stringere legami coi massacratori del 7 ottobre, che si rifiuta di definire terroristi.

A voler essere cinici - e di solito, purtroppo, non si va lontano dalla verità - quello che si delineerebbe in Medio Oriente qualora la fragile tregua di Gaza andasse in porto somiglia molto a un gioco delle parti. Biden potrà dire di aver fatto tutto il possibile per salvare vite palestinesi, Netanyahu di aver provato a liberare gli ostaggi israeliani, Hamas di aver agito nell'interesse del popolo di Gaza e non nel proprio particolare.

E quando la bolla di sapone scoppierà, ciascuno potrà riprendere ad agire come prima, incolpando gli altri.

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