Letteratura

Premierato più autonomia? Si può fare

Gianfranco Miglio teorizzò un sistema decentrato con presidente garante e governo "forte"

Premierato più autonomia? Si può fare

In questi giorni la politica italiana si divide sul premierato, fortemente voluto dalla premier Giorgia Meloni, e pure sulla proposta di rafforzare le autonomie, che invece sono chieste a gran voce da Matteo Salvini. L'opposizione rigetta sia il rafforzamento dell'esecutivo, che per qualche esponente del Pd comporterebbe esiti liberticidi, sia il potenziamento dei poteri locali, che implicherebbe perfino lo sfascio della Repubblica.

È bene essere consapevoli che tutti i dibattiti odierni in tema di premierato sono figli di una stagione che a lungo focalizzò l'attenzione su ipotesi «presidenzialiste». Premierato e presidenzialismo non sono affatto la stessa cosa, dato che in un caso si punta a rafforzare il capo dell'esecutivo e nell'altro a far coincidere premier e presidente. È chiaro, però, che nel premierato della Meloni il recupero dei temi presidenzialisti è coniugato all'esigenza di salvaguardare il ruolo dell'attuale capo dello Stato.

Volendo esaminare questi temi senza restare prigionieri di considerazioni superficiali, può allora essere utile rileggere alcune analisi di Gianfranco Miglio, che non soltanto è stato uno degli studiosi della politica più lucidi del secolo passato, ma anche colui che con maggiore autorevolezza ha proposto di riformare l'assetto istituzionale: prima suggerendo di rafforzare il governo e poi immaginando un assetto federale.

Se negli anni Ottanta, sfidando vecchi tabù, s'iniziò a parlare di premierato un contributo fondamentale venne proprio dal cosiddetto Gruppo di Milano, di cui proprio Miglio fu l'esponente più noto. Coinvolgendo studiosi di varie scuole e visioni politiche, egli immaginò modifiche costituzionali che comportavano l'elezione diretta del primo ministro e intendevano porre fine a quella fase della Repubblica.

Ciò che Miglio propose in seguito sembrò muoversi in tutt'altra direzione. Con l'emergere della Liga Veneta e poi della Lega Lombarda, il professore della Cattolica comprese che ci poteva essere una finestra d'opportunità per un ripensamento d'altro tipo: stavolta non già per rafforzare il governo centrale, ma invece per dare la massima autonomia possibile alle comunità locali. Sono gli anni di Miglio fautore di soluzioni federaliste e anche difensore del diritto di autodeterminazione di ogni comunità, quale tratto essenziale del cosiddetto «diritto di resistenza». Lo studioso resterà soltanto pochi anni nel movimento politico di Umberto Bossi, ma in quel periodo e anche successivamente continuerà a ragionare intorno alla necessità di superare la struttura centralista dello Stato italiano, in larga misura disegnato a partire dal modello francese.

Miglio abbandonò il premierato per convertirsi al federalismo? Per nulla. Già durante i lavori che condurranno nel 1983 alla pubblicazione di Verso una nuova costituzione (che raccoglie le tesi del Gruppo di Milano) Miglio aveva espresso le sue opinioni sul federalismo. Se in quegli scritti il tema è assente è soltanto perché, come egli stesso ammise, dopo aver suggerito ai colleghi di prendere in esame la questione s'era accorto di essere il solo a nutrire quei convincimenti. Ma egli fu sempre favorevole all'autogoverno delle comunità.

Se oggi dunque ci si chiede come la maggioranza possa tenere assieme premierato e autonomie, già nei decenni scorsi i lettori di Miglio s'erano interrogati su come fosse possibile che il medesimo scienziato politico avesse proposto due direzioni tanto diverse. Eppure, in materia, il professore aveva le idee chiare.

Ai suoi occhi, il nesso cruciale stava nel principio di responsabilità. Per Miglio quella che oggi chiamiamo la Prima Repubblica era caratterizzata da governi di breve durata e, anche per questo motivo, dallo svanire di ogni vero legame tra gli elettori e gli eletti. Perfino di fronte a scelte politiche disastrose, nessuno era mai chiamato a rispondere, dal momento che non soltanto il potere era divenuto extra-istituzionale (in quanto controllato dalle segreterie dei partiti), ma anche perché qualunque leader era in quella posizione per breve tempo e dipendendo da innumerevoli soggetti.

A suo parere, sempre il principio di responsabilità doveva farci comprendere l'urgenza che ogni regione e ogni città vivano delle loro risorse (grazie alle imposte dei loro cittadini), e non basandosi sui trasferimenti di quella finanza derivata che manda tutti i soldi a Roma e poi li ripartisce.

Se nel radicalismo di Miglio la teoria federale e il rafforzamento dell'esecutivo puntavano a far sì che gli attori politici fossero chiamati a rispondere delle loro azioni, quella lezione resta attuale pure oggi. Non c'è dubbio che il progetto di favorire autonomie differenziate è soltanto simbolicamente collegabile alle logiche pattizie di un ordine federale, e lo stesso premierato di cui si discute è una versione sbiadita di quanto proposto dal Gruppo di Milano. Ugualmente non può essere negata l'esistenza di un nesso tra i lucidi sogni a occhi aperti del professor Miglio e le battaglie di questi mesi.

Tanto più che nella scienza politica migliana tutto va inquadrato nel contrasto essenziale tra dui tipi di obbligo. Ogni ordine sociale esige una riduzione dell'incertezza e impone che i comportamenti siano in qualche modo vincolati e, almeno in parte, prevedibili: a partire da qui Miglio sottolinea come si possa arrivare a tale risultato tramite l'imperatività di un comando (obbligo politico) oppure grazie alla volontarietà di un accordo (obbligo contrattuale), come avviene nelle società libere.

Certamente Miglio manifestò sempre una netta opzione per il privato contro il pubblico, per il lavoro contro il parassitismo, per la responsabilità contro l'irresponsabilità.

Recuperare il legame tra il governante e la cittadinanza (tramite l'elezione diretta) e tra i benefici e i costi della spesa pubblica (tramite l'autogoverno locale) era quindi, a suo parere, un modo per rafforzare gli spazi di libertà e ridurre gli arbitrii del ceto politico.

Si tratta di un insegnamento che, sotto vari punti di vista, va tenuto ben presente.

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