Controcultura

La leadership al tempo degli influencer

Riluttanti, inclini al compromesso e al perdono, visionari ma senza profetizzare, estranei alla ricerca del consenso. Ecco come sono i veri capi.

La leadership al tempo degli influencer

No, non è un eroe. Il leader non è un santo, non è un predestinato, non ha le stimmate del vincente e non prende scorciatoie, raramente è egocentrico, non conosce il suo destino e sembra sempre un po' riluttante, conta le ferite sulla pelle e non ragiona per tempi troppo brevi, conosce la strada del compromesso ma non tradisce se stesso e sa quando è il caso di perdonare. Non è la vendetta il suo demone. Sa che il qui e adesso ha il suo peso e la fortuna è una variabile che non va sottovalutata. È un visionario, ma non è un profeta. Il consenso non è mai la sua prima preoccupazione, neppure in democrazia. Di certo i leader non sono parenti stretti degli «influencer».

Allora ti chiedi se in queste stagioni dove le avventure evaporano troppo in fretta, smaterializzandosi, lasciando tracce sulla sabbia, ci siano le orme di leader che segnano la storia. Ci saranno, certo, perché è un peccato peccare del pessimismo dei vecchi, ma in questo orizzonte di ombre, affollato di personaggi disincarnati, la fatica è riconoscerli. Una buona traccia arriva dal saggio di Antonio Funiciello, intellettuale poco ortodosso e capo staff di Draghi a Palazzo Chigi. Il titolo è Leader per forza. Storie di leadership che attraversano i deserti (Rizzoli, pagg. 298, euro 18). Il nostro è il deserto occidentale. È un tempo di risacca. «La sfida che rischiamo di perdere è l'arretramento globale della democrazia liberale. Rischiamo di perderla anche perché i nostri leader faticano a reggere il confronto e l'urto di quelli orientali». Funiciello sceglie sei storie principali, e le accoppia. Sei leader che si sono trovati all'incrocio dei venti, ognuno con una caratteristica particolare che in quel momento storico ha finito per fare la differenza. Eccoli: Golda Meir e Harry Truman, Cavour e Lincoln, Nelson Mandela e Václav Havel. Tutti e sei, come in un mosaico, formano l'immagine di chi per Funiciello è il patriarca di tutti i leader: il Mosè narrato nel Deuteronomio. «Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli disse: Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io la darò alla tua discendenza. Te l'ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai». È la terra promessa.

Il Mosè della Bibbia non ha grandi certezze. Non è convintissimo che tocchi proprio a lui il peso di liberare il popolo ebraico. È riluttante. Cerca di sottrarsi da questa avventura e Dio all'inizio si mostra perfino fin troppo paziente. Chi sono io per andare dal faraone? Cosa dico agli ebrei? Mosè è dubbioso, scettico. Non gli va proprio di fare il capo. «Si dice spesso che il Dio del Vecchio Testamento sia iracondo e vendicativo e invece qui mostra di avere più pazienza del povero Giobbe». Non ti preoccupare, io sarò con te. Niente da fare, Mosè non si convince e continua a accampare scuse. «Spiega al suo interlocutore che questo lavoro non fa per lui, che si cerchi un altro per liberare il popolo eletto». Dice che non sa parlare in pubblico. Si spaccia per balbuziente. Yahweh replica: «Non vi è forse tuo fratello Aronne? Io so che lui è un bravo oratore». È un dialogo da commedia brillante. Mosè commette diversi errori strategici e tattici. Cade e si rialza, zoppicando. È un magnifico incassatore. Subisce il malcontento del suo popolo, le famose mormorazioni. Lo maledicono per i quarant'anni nel deserto. Rinnegano lui e il suo Dio. Qui Mosè sarà spietato. Yahweh punisce la vecchia generazione, che non ha creduto in lui, e premia la fiducia di Giosuè. Non sarà Mosè a condurre gli ebrei nella terra promessa. Si limiterà a guardarla da lontano. Quando chiede se almeno le sue ossa possano riposare in Cananea, la risposta del Signore è senza speranza.

È che per capire i leader bisogna guardare alle loro vocazioni. Pochi avrebbero scommesso su Golda Meir. È una che viene da lontano e il suo carisma è la tigna. È una che sa sopravvivere in mezzo al deserto, aggrappandosi anche a una certa buona dose di ironia. Durante una cena con il cancelliere tedesco Willy Brandt si mostra piuttosto sagace. «Lasciatemi spiegare perché noi israeliani ce l'abbiamo un po' con Mosè. Ci ha portati in giro per quarant'anni nel deserto, fino a condurci nell'unico angolo del Medio Oriente dove non c'è una goccia di petrolio». Golda crede nella sopravvivenza di Israele sopra ogni cosa. È solo per questo che si ritrova al potere. È la sua missione. Ha contribuito come pochi alla nascita di una nazione. Quando lascia il governo e le chiedono cosa farà, se ha speranze o desideri, lei risponde così: «Dormire. Voglio proprio dormire come una vecchia che è stanca di viaggiare, discutere e arrabbiarsi».

Truman è il numero due che si ritrova a gestire l'America in una stagione drammatica. È il vice presidente di Franklin Delano Roosevelt e quando il grande uomo muore si ritrova sulle spalle i destini del mondo. La sua meraviglia è la capacità di gestire il futuro dopo la vittoria. È un piano per dare un domani alle democrazie europee devastate dalla guerra. È l'America che finanzia la ricostruzione degli alleati e dei nemici. È l'opposto del «guai ai vinti». Il bello è che quel piano non porta il suo nome. Truman capisce che il suo progetto per passare ha bisogno della figura di un generale popolare e amato. È il suo ministro degli Esteri. Truman non pecca di egocentrismo e fa un passo indietro. Quella meraviglia passerà alla storia come Piano Marshall.

Il talento di Camillo Benso è disegnare l'impossibile, mossa dopo mossa, su una scacchiera sbilenca, senza neppure credere che quel progetto fosse non solo realizzabile, ma addirittura opportuno. Il conte aveva un modo tutto suo di giocare di sponda, di sfruttare gli spazi stretti, piegando i grandi eventi globali alle sue necessità. È una lezione tuttora valida. Abraham Lincoln ha combattuto per la sua idea di libertà, con una guerra civile sanguinaria, che ha segnato la prevalenza politica del Nord e l'abolizione sacrosanta della schiavitù. Il prezzo da pagare è stato alto. Lincoln non ha esitato, anche in Parlamento, a usare mezzi poco leciti. Ne valeva la pena. È l'esempio di come si possono utilizzare tutti i mezzi per raggiungere alti obiettivi morali. La storia di Václav Havel è quella di una pecora nera che rompe la monotonia del gregge e sceglie di andare altrove. È la forza di chi si muove in direzione ostinata e contraria. È un leader che nasce dalla dissidenza. Nelson Mandela è il carisma di chi sa perdonare. È la scelta di un uomo che dopo 27 anni di carcere, una volta in libertà, stringe un patto con i suoi carcerieri.

Mandela ha vinto, ma sa che un mancato accordo tra africani e afrikaner avrebbe condotto alla guerra civile e distrutto il Sudafrica. È una visione sovrumana.

Tutti e sei, in fondo, ti ricordano una cosa, che poi è scolpita in una verso di De André. «Ma voi che siete uomini sotto il vento e le vele non regalate terre promesse a chi non le mantiene».

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