Serialità

La legge di Lidia Poët, la nuova serie Netflix tra realtà storica e fantasia

Disponibile sulla piattaforma dal 15 febbraio, la serie racconta le lotte del primo avvocato donna d'Italia, interpretata da Matilda De Angelis

La legge di Lidia Poët, la nuova serie Netflix tra realtà storica e fantasia

Un omicidio e un orgasmo: inizia così La Legge di Lidia Poët, la nuova serie tutta made in Italy disponibile dal 15 febbraio su Netflix. Sei episodi diretti da Matteo Rovere (già alla regia de Il Primo Re e Romulus) e Letizia Lamartire che, in una splendida Torino di fine ‘800, ripercorrono tra realtà storica e fantasia la vita della giovane Lidia Poët, la prima donna avvocato d’Italia. Fin dalle prime scene è chiaro che la protagonista, interpretata da Matilde De Angelis, non ha niente a che vedere con le donne della sua epoca: non solo tenta di esercitare a tutti i costi la professione, attirando su di sé le critiche (e più spesso lo sdegno) dei suoi colleghi uomini, ma sfida apertamente le convenzioni sociali, rifiutandosi di rispettare le norme comportamentali imposte alle donne.

Il cast

Ad affiancare la talentuosa Matilde De Angelis, un cast giovane e vincente: reduce dal successo da co-protagonista nel reboot a puntate delle Fate Ignoranti di Ferzan Ozpetek, Eduardo Scarpetta veste i panni del giornalista Jacopo Barberis, fratello della cognata di Lidia Teresa Barberis (Sara Lazzaro). A recitare nel ruolo del fratello Enrico, anch’esso avvocato, Pier Luigi Pasino, mentre la figlia adolescente della coppia, Marianna, è interpretata da Sinéad Thornhill. Dario Aita, invece, si cala nella parte dell’amico giramondo Andrea Caracciolo.

La trama

È il 1883 e Lidia Poët, abilitata da appena tre mesi, ha ricevuto un importante incarico. Ma una sentenza della Corte d’appello di Torino dichiara illegittima la sua iscrizione all’Albo degli avvocati, impedendole così di esercitare la professione ancor prima di iniziare. Il motivo? Un avvocato donna screditerebbe la categoria. Senza contare quanto sarebbe disdicevole per una donna dover dibattere in aula. Una decisione che Lidia non è intenzionata ad accettare. Mentre si adopera per fare ricorso, convince il fratello Enrico ad assumerla come sua assistente vincendo, caso dopo caso, seppur con metodi spesso al limite della legalità, la sua reticenza. Ad aiutarla (e attrarla) anche il giornalista Jacopo, che con le giuste conoscenze e la sua intraprendenza è sempre pronto a farle da spalla nelle sue indagini clandestine, durante le quali si improvvisa investigatrice.

Perché vederla

Prima di tutto per Matilde De Angelis, che si prende sulle spalle ogni scena e ne delinea il tono: un’interpretazione meno sfumata e più monolitica avrebbe probabilmente ucciso il progetto. De Angelis si cala perfettamente nel ruolo della donna moderna e controcorrente, ostinata ma anche capace di mostrare le sue debolezze e i suoi passi falsi, convinta delle sue idee ma anche disposta a non prendersi troppo sul serio. Per esempio l'inserimento dei temi di rivendicazione è spesso trattato in modo ironico, come quando la protagonista e Barberis ridono al solo pensiero che le donne possano votare.

Anche il format della serie è funzionale alla godibilità e soprattutto fa sì che possa soddisfare gli standard generalisti di Netflix e un pubblico internazionale. Con un mix di noir, rosa e temi politici, La Legge di Lidia Pöet si colloca nella grande tradizione delle serie investigative, rispettandone anche la durata (circa 43 minuti a episodio): ogni puntata si apre con un nuovo imputato da difendere e quindi un caso “da risolvere”. Perché Lidia, da outsider qual è, sceglie di aiutare sempre le persone vittime delle diseguaglianze dell’epoca, quelle che hanno la condanna già scritta in faccia. E seppure la trama si rivela spesso fin troppo semplice, forse proprio a causa del volere inseguire un intrattenimento "largo" e leggero, la serie dimostra una cura non indifferente nelle ricostruzioni sceniche, nei costumi dettagliatissimi e nella recitazione, dimostrando che anche le produzioni italiane si possono confrontare con sfide più ambiziose.

La vera storia

Nata nel 1855 a Perrero, in provincia di Torino, da un’agiata famiglia di valdesi, Lidia Poët divenne dapprima maestra. Poi riuscì a convincere la famiglia a farle intraprendere gli studi liceali, che concluse nel 1877, a cui seguì la facoltà di Legge dell’Università di Torino. Si laureò nel 1881 con una tesi sulla condizione femminile nella società e sul diritto di voto per le donne e superò con 45 punti su 50 l’esame di abilitazione alla professione forense, chiedendo l’ammissione all’Ordine degli avvocati. Il 9 agosto 1883, dopo numerose polemiche e le dimissioni di due importanti membri dell’Ordine, Poët divenne la prima donna in Italia ammessa all’esercizio dell’avvocatura. Una conquista effimera che, come racconta la serie, venne vanificata dall’intervento della Corte d’Appello di Torino dopo un ricorso presentato nientemeno che dal procuratore generale dal Regno d’Italia. Fu inutile presentare il caso alla Corte di Cassazione, che confermò la sentenza precedente, sostenendo l’incompatibilità del genere femminile con l’avvocatura: “Nella razza umana esistono diversità e diseguaglianze naturali”, si legge nelle motivazioni della Corte, che “non si può chiedere al legislatore di rimuovere”.

Pöet dovette aspettare la fine della prima guerra mondiale (e i 65 anni di età) per vedersi riconosciuta come avvocato dall’Ordine. Questo non le impedì comunque di esercitare in modo ufficioso la professione e, soprattutto, di dedicare la sua vita alla rivendicazione dei diritti non solo delle donne, ma anche dei detenuti e dei minori. Fu un'importante presenza ai Congressi penitenziari internazionali, durante i quali affrontò più volte la questione della giusta pena e della riabilitazione.

Nel 1903 entrò anche a far parte del Consiglio nazionale delle donne italiane, producendo diversi documenti che chiedevano sia l’estensione dei diritti civili e del voto alle donne, sia altre norme civili e giuridiche estremamente progressiste per l’epoca, molte entrate nell’ordinamento italiano solo decenni dopo (come l’abolizione del lavoro minorile).

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