Così Röpke sposò il mercato e lo Stato nella sua "terza via"

L'economista svizzero rifiutò la scelta fra socialismo e liberalismo in nome di un sistema "misto"

Così Röpke sposò il mercato e lo Stato nella sua "terza via"

All'indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale, Wilhelm Röpke (1899-1966) pubblicò un volume, apparso anche in italiano nel 1946 con il titolo Il problema della Germania, che si presentava come una riflessione storico-filosofica sull'essenza e sulle caratteristiche del nazionalsocialismo. Si trattava di un importante ed equilibrato contributo (al quale, peraltro, in sede storiografica non ha arriso la fortuna che avrebbe meritato) a quel dibattito sulla «colpa della Germania» cui avrebbero preso parte filosofi e storici come Karl Jaspers, Friedrich Meinecke, Golo Mann, Gerhard Ritter e via dicendo: un dibattito che avrebbe condizionato, per molti decenni, la storia intellettuale e politica di una Germania tormentata da sensi di colpa e dall'idea di un «passato che non passa».

Röpke vedeva nel nazionalsocialismo «l'aspetto tedesco di quel sistema sociale e di governo cui si dà il nome di totalitarismo» e ne rintracciava la genesi più che nel «carattere nazionale» o nel concetto del «tedesco eterno» nella patologia della storia tedesca quale era andata sviluppandosi lungo la direttrice che, partendo dalla Prussia di Bismarck, era giunta al Reich di Hitler. Si trattava di una analisi del «problema tedesco», importante sul terreno interpretativo e storiografico, che però a differenza degli esiti catastrofici preconizzati da altri studiosi lasciava socchiusa la porta alla speranza di ripresa. Röpke concludeva, infatti, che il futuro dell'Europa del dopoguerra sarebbe dipeso dalla capacità di reintegrare pacificamente la Germania nell'organismo europeo in modo tale da «proteggere l'Europa dalla Germania e la Germania da sé medesima». Osservava, in proposito, lapidariamente: «l'Europa, finché avrà al suo centro una Germania malata, correrà alla rovina definitiva e nessuno può illudersi che l'Europa possa fare a meno della Germania se vuol affermarsi nel mondo».

Quando scrisse quest'opera che, ribadisco, meriterebbe di essere riproposta all'attenzione degli studiosi Röpke era già un economista di fama internazionale. Negli ultimi anni, in pieno clima bellico, aveva pubblicato tre volumi nei quali la dimensione puramente economica veniva inserita in un discorso più ampio coinvolgente il rapporto fra questioni morali e istituzionali: La crisi sociale del nostro tempo (1942), Civitas Humana. I problemi fondamentali di una riforma sociale ed economica (1944) e L'ordine internazionale (1945). In questi lavori, come pure nel coevo Il problema della Germania, apparivano lo spessore e la ecletticità di un grande economista, liberale e conservatore, e, al tempo stesso, di un altrettanto grande filosofo e sociologo: un pensatore, insomma, che avrebbe ispirato l'azione di importanti statisti del dopoguerra europeo e avrebbe contribuito alla definizione e diffusione di un «neoliberalismo» fondato sulla «economia sociale di mercato».

Nato sul finire del secolo decimonono in un piccolo comune della Bassa Sassonia, Röpke non era stato, in origine, un liberale. Aveva nutrito in gioventù sentimenti socialisti ben presto ripudiati di fronte agli sconvolgimenti provocati dalla Grande guerra in tutti i settori. Raccontò così genesi e motivazioni della sua crisi esistenziale e politica: «la protesta contro l'imperialismo, il militarismo, il nazionalismo, era equivalente alla protesta contro il dominante sistema politico ed economico, vale a dire contro il feudalesimo e il capitalismo. Ci mettemmo a cercare. Ma quello che trovammo dopo anni di confusione fu una cosa del tutto diversa. Scoprimmo che il nostro punto di partenza era errato e ci aveva attirato su vie false. Siccome il punto di partenza era la protesta contro la guerra e contro il nazionalismo era logico, che, come studiosi di economia politica, in riguardo alle relazioni economiche internazionali, ci dichiarassimo liberali e diventassimo liberoscambisti».

Per l'approdo ai lidi del pensiero liberale era stata determinante l'influenza di von Mises, riconobbe pubblicamente: «Mi piace sottolineare il mio immenso debito nei confronti di Ludwig von Mises, perché fu proprio lui a immunizzarmi, sin dalla mia gioventù, dal veleno del socialismo, infezione con la quale molti di noi erano tornati dalla Prima guerra mondiale». Non è un caso che, nel 1947, poco dopo la conclusione del conflitto mondiale, egli fosse, insieme a von Mises e a Friedrich von Hayek, tra i fondatori della Mont Pelerin Society destinata a diventare il tempio del liberalismo e del liberismo.

Röpke aveva iniziato la carriera accademica insegnando sociologia e filosofia in alcune sedi universitarie austro-tedesche (Jena, Graz e Marburgo), ma aveva lasciato la Germania nel 1933 all'avvento del nazionalsocialismo trasferendosi in Turchia, dove aveva insegnato economia all'università di Istanbul prima di approdare, nel 1937, a Ginevra alla direzione del prestigioso Institut des Haute Études Internationales. Ed era stato proprio nel vivacissimo ambiente intellettuale della metropoli elvetica che aveva stabilito rapporti di frequentazione e amicizia, oltre che con von Mises, con studiosi di formazione disciplinare eterogenea come Hans Kelsen, Guglielmo Ferrero, e Luigi Einaudi. Ed era stato ancora durante gli anni ginevrini, in particolare quelli immediatamente prebellici e bellici, che aveva dato forma e contenuto a una nuova teoria istituzionale che avrebbe assunto il nome di «economia sociale di mercato».

Il primo e più significativo lavoro di Röpke in materia è il ricordato La crisi sociale del nostro tempo, scritto nell'ultimo scorcio del 1941, ora riproposto da Rubbettino in una edizione (pagg. XXII-390, euro 28) egregiamente curata da Flavio Felice, che dell'economista aveva già fatto ristampare, presso lo stesso editore, due altri volumi: Al di là dell'offerta e della domanda. Verso un'economia umana (2015, pagg. XL-296, euro 16) e Civitas Humana (2016, pagg. 360, euro 19). Quella appena ripubblicata è l'opera a suo tempo favorevolmente recensita da Luigi Einaudi sulla Rivista di storia economica nella quale si introduceva il concetto di «terza via». Röpke con la sua mentalità anti-ideologica rifiutava la scelta fra polarità antitetiche come «rivoluzione» e «reazione», «fascismo» e «comunismo», «individualismo» e «collettivismo», «capitalismo» e «socialismo» od anche come «economia di mercato» ed «economia controllata». Il concetto di «terza via» nasce proprio da questo rigetto della ineluttabilità di una scelta obbligata fra le due ipotesi contrapposte del laissez-faire e della «economia programmata». La «terza via», per lui, non significava, insomma, sul terreno della organizzazione economico-sociale, una soluzione «intermedia» fra due poli antitetici e alternativi, ma esprimeva piuttosto quell'idea di «economia mista» che accetta la possibilità di interventi statali che siano «conformi» al mercato, cioè, per usare il linguaggio di von Hayek, che non sopprimano «la meccanica dei prezzi e l'autogoverno del mercato».

Questa idea che in concreto venne fatta propria da Ludwig Erhard e da Konrad Adenauer in Germania e, in Italia, da Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi fece di Röpke, come ebbe a osservare Benedetto Croce, «il principale autore e l'indefesso apostolo» del liberismo della «economia sociale di mercato».

L'analisi del fallimento della economia pianificata contenuta in questo libro (e in tanti altri suoi lavori) è rigorosa e ineccepibile come affascinanti e incontestabili sono le considerazioni sul rapporto fra «libertà economica» e «libertà politica». E fanno di Röpke un classico del pensiero liberale contemporaneo.

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