Cultura e Spettacoli

Crudeltà, genio, spaghetti. Il western all'italiana visto da Quentin Tarantino

Per il regista i nostri film "di genere" sono stati una lezione per il mondo del cinema

Crudeltà, genio, spaghetti. Il western all'italiana visto da Quentin Tarantino

Sergio Corbucci (1926-90), regista d'amore e di coltello, così italiano da sapere trasformare come pochi altri l'artigianato in arte e così romano da sapere portare il peplum con rara disinvoltura - Romolo e Remo, Il figlio di Spartacus, ma mise anche una mano nel film Gli ultimi giorni di Pompei, anni di dolce vita cinematografica 1960 e dintorni - fu autore sui generis di molti generi: il melodramma strappalacrime, i Totò-film, il musicarello, la commedia, il mitologico e lo spaghetti-western, geniale invenzione italica di cui Quentin Tarantino è il più autorevole, documentato e appassionato esegeta. È stato proprio il cineasta americano, nato a Knoxville, Tennessee, a poche miglia immaginarie di distanza da Cinecittà - della cui produzione anni Sessanta-Settanta ha visto praticamente tutto - a celebrare hollywoodianamente i grandi maestri dello spaghetti western: Sergio Leone, Sergio Corbucci (non a caso definito «il secondo miglior regista di western italiani»), Antonio Margheriti, Sollima& compañeros... Tarantino, al suo esordio, con Le iene, 1992, citò il Django di Corbucci, anno di sanguinosissima grazia 1966, ricostruendo la spietata sequenza del taglio dell'orecchio della spia del clan - ricordate il balletto di Michael Madsen? - facendoglielo infine ingoiare. Poi omaggiò nuovamente la pellicola culto (una copia della quale è conservata al Museum of Modern Art di New York) col suo Django Unchained, mentre Il grande silenzio di Corbucci è servito da ispirazione per The Hateful Eight oltre al fatto che il regista italiano è, idealmente, un personaggio, invisibile, che in C'era una volta a... Hollywood offre lavoro in Italia all'attore in declino Rick Dalton interpretato da Leonardo DiCaprio...

L'America e l'Italia, come si vede, sono cinematograficamente a pochi metri di pellicola di distanza, e così è capitato in passato che spesso Tarantino, per i suoi film, chiedesse aiuto e materiali (locandine, contatti, idee) a qualche amico italiano, come Luca Rea, che nel 2004 ha curato con Marco Giusti la celebre rassegna «Italian Kings of the B's. Storia segreta del cinema italiano» per la Mostra del cinema di Venezia, o come Steve Della Casa, senatore della critica e della storia del cinema italiano, i quali durante i lunghi mesi di lockdown hanno chiesto indietro il favore al regista americano. «Accetti di raccontarci, tu hollywoodiano, cos'è il western all'italiana?». E lui ha risposto con l'unica parola della nostra lingua che conosce, oltre a «spaghetti». Che è: «Sì».

E così Luca Rea e Steve Della Casa hanno mandato una troupe a Los Angeles a villa Tarantino, loro si sono collegati via Skype, la chiacchierata doveva durare venti minuti e invece si è prolungata per tre ore e mezza («Quentin si è seduto nella sua saletta cinematografica privata con un pacco di fogli di appunti...») e il risultato è uno spettacolare docufilm dal titolo Django&Django: Sergio Corbucci Unchained passato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia a settembre, presentato ieri sera al B.A. Film Festival di Busto Arsizio e che sarà nelle sale italiane, come evento speciale, il 15, 16 e 17 novembre. Andate a vederlo.

Ed eccolo qui, senza facili nostalgie e inutili citazionismi: 80 minuti di puro «cinema sul cinema» fra lectio tarantiniane, sequenze di film celebri e perduti, testimonianze ad hoc di Franco Nero (attore feticcio di Corbucci) e Ruggero Deodato (che fu tra l'altro l'aiuto-regista di Django) e persino dei super8 inediti realizzati sui set dei film del regista romano finora conservati dalla vedova, Nori Corbucci. Erano gli anni in cui il Tevere bagnava Hollywood e in Italia si producevano 350 film all'anno ed eravamo la seconda cinematografia occidentale dopo gli Stati Uniti...

Alcune cose per cui vale la pena vedere il docufilm di Rea e Della Casa. Uno: il momento in cui Tarantino spiega, a noi italiani, come nei film di Corbucci, e in molti spaghetti western, confluisca tanto terzomondismo della sinistra italiana dell'epoca, ambientando fra messicani e pellerossa i movimenti di liberazione nazionale e le rivendicazioni contro la guerra del Vietnam, ad esempio; o quando smaschera alcune metafore antifasciste e antirazziste di pellicole come Django (1966) o Il grande silenzio (1968) o Il mercenario (1968). Due: la ricostruzione, attraverso una serie di story board alla Kill Bill appositamente disegnati da un giovane illustratore romano, Giordano Saviotti, di ciò che accade a Rick Dalton-Leonardo DiCaprio quando viene a Roma a incontrare Corbucci in C'era una volta a... Hollywood. Tre: la distinzione fra essenza del cinema di Sergio Leone (la potenza della storia e della messa in scena) rispetto al cinema di Corbucci (la crudeltà e l'originalità degli effetti visivi). Quattro: il fatto di poter rivedere sequenze da antologia come quelle della bara («porta bene nei film») e della mitragliatrice in Django, oppure riascoltare la cover di Bang Bang nel video-western dell'Equipe 84, o il brano Vamos a matar compañeros - saloon music da brividi - composto da Ennio Morricone...

Ps. Quando Quentin Tarantino ha visto Django&Django ha detto: «Mi è piaciuto moltissimo, tutto.

A parte vedermi così grasso».

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