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Dalla guerra a Hollywood Il dramma dei profughi è nella storia degli Oscar

"Flee" di Jonas Poher Rasmussen può vincere tre statuette. Soffiandone una a Sorrentino...

Dalla guerra a Hollywood Il dramma dei profughi è nella storia degli Oscar

Flee, fuggire. Fra in candidati all'Oscar 2022 c'è una storia che sembra scolpita nella cronaca odierna. È il documentario danese di Jonas Poher Rasmussen che è già entrato nella storia degli Academy Award per essere candidato in tre categorie importanti: miglior documentario, miglior film di animazione e miglior film internazionale. Ora in sala in Italia, Flee racconta il viaggio dall'Afghanistan alla Danimarca di un ragazzino quindicenne, solo, senza famiglia, in fuga dalla guerra. «È una storia che per me ha un significato personale importante ed è bello vedere che anche gli altri percepiscono il suo messaggio», dice Rasmussen. Complici i tempi, è facile.

Il racconto è quello dell'infanzia di un amico del regista, il rifugiato afgano Amin. «Ci incontrammo quando entrambi avevamo 15 anni. Un giorno Amin arrivò, da solo, dall'Afghanistan e fu affidato ad una famiglia che viveva all'angolo della strada dove abitavo io. Diventammo amici, io ero curioso di sapere le circostanze che lo avevano portato in Danimarca, come era arrivato e perché. Ma lui non ne voleva parlare. Ho sempre rispettato la sua volontà ma il suo passato divenne un macigno fra noi, una scatola nera sempre in mezzo».

Il documentario racconta di quando Amin decide di aprirsi, di raccontare la sua storia. Accade molto tempo dopo quel primo incontro, pochi giorni prima del matrimonio con quello che diventerà suo marito. Amin è gay e aveva dunque un motivo in più per scappare dall'omofobo Afghanistan. Quando decide di raccontare la sua storia l'amico Jonas registra tutto, in audio. «Iniziò a raccontare della sua infanzia e di quelle radici sradicate all'improvviso. Raccontò la sua fuga, il suo rocambolesco viaggio da solo sino a raggiungere il piccolo villaggio agricolo danese dove vivevo e dove ci conoscemmo». Coperto dall'anonimato del racconto solo in voce, Amin portò alla memoria una storia drammatica, potente, complessa, dolorosa ma anche divertente, emozionante. Solo più tardi all'amico regista venne in mente di dare un potere visivo a quella voce, attraverso l'animazione. «I nostri disegni sono il frutto di una lunga ricerca di immagini dell'Afghanistan negli anni Ottanta. Sentivo l'esigenza di fare il possibile perché il pubblico avesse ben chiaro che si trattava di una storia vera».

È nato così Flee, che ha già vinto molto, anche il Gran premio della giuria per i documentari al Sundance, il Festival del cinema indipendente di Robert Redford che si svolge a gennaio, e ora si prepara alla sfida della notte degli Oscar in diretta concorrenza con È stata la mano di Dio di Sorrentino per quanto riguarda la categoria miglior film internazionale.

Nei momenti più toccanti del racconto le immagini assumono un tono di sogno, surreale: «Volevamo far capire al pubblico che ci trovavamo dentro le emozioni di un adolescente che provava paura, rabbia, tristezza dice il regista - Amin raccontava i suoi traumi e la memoria di quegli avvenimenti e la sua voce naturalmente cambiava durante i passaggi più drammatici. Abbiamo cercato di fare in modo che anche le immagini seguissero questo alternarsi di emozioni nel racconto». Se non fosse già bastata la cronaca di quest'estate, con la popolazione afgana che tentava di fuggire in ogni modo dalla minaccia talebana dopo il ritiro americano, ora è la guerra in Ucraina a rendere attuale e drammatico il messaggio del film: «Spero che questa storia aiuti il pubblico a mettersi nei panni di chi deve fuggire da casa e da tutto quello che ha. Essere un rifugiato non è il risultato di una decisione presa alla leggera, è il risultato di circostanze drammatiche che hanno portato questa gente a sradicarsi dal suo passato, dalla sua storia, dalla sua terra e dalla famiglia».

Ma c'è anche un altro aspetto che sta a cuore al regista: «Il mio è anche un film sull'importanza della condivisione e dell'ascolto. Ci sono tantissime persone oggi, e ce ne saranno ancora di più domani, che portano dentro ferite orribili che gli altri non vedono e non possono vedere.

Tenersele dentro è doloroso, imparare a raccontare e, dall'altra parte, ad ascoltare può salvare, può essere la cura».

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