L'Austria di Bernhard è l'Italia dei mediocri

Il romanzo "Ungenach". La liquidazione di una ricchissima proprietà simboleggia il rifiuto di un mondo intollerabile

L'Austria di Bernhard è l'Italia dei mediocri

Quando penso che Thomas Bernhard ha lasciato nelle sue ultime volontà di non pubblicare più i suoi libri in Austria, penso che come scrittore farò lo stesso anche io qui, in Italia, con i suoi premi letterari dati da impiegati a impiegati, da amici della domenica a amici di tutti gli altri giorni della settimana, da morti viventi a morti sorridenti. Così come penso che i libri di Thomas Bernhard contro l'Austria valgano anche per l'Italia, e non solo per l'Italia, perché i grandi romanzi che non siano intrattenimento sono sempre una ribellione assoluta, mai consolatori, mai contingenti, mai banalmente politici, ferite aperte nella coscienza umana, aggressioni alla biologia, scomodi perché universali, impietosi, mai buonisti. Insomma, voglio parlarvi del mio parente Bernhard.

Ungenach è un comune austriaco e un possedimento terriero e il titolo di un romanzo di Bernhard uscito nel 1968 che sta per essere ripubblicato da Adelphi, dove l'unico erede, esule negli Stati Uniti, decide di disfarsene donandola, tant'è che il sottotitolo recita: Una liquidazione. Tutto è tremendamente attuale, leggetelo pensando a noi, non all'Austria, al massimo all'essere umano, perché «la nostra testa è il prodotto logico di una tautologia, perché tutto mira all'annientamento». Pensate ai nostri autori da classifica, da opinione politicamente corretta o scorretta o impegnata, mentre in Ungenach la voce narrante dice «mi seccava perdermi in pose intellettuali degenerate come oggi si vedono dappertutto, era una cosa che mi disgustava». Chissà cosa avrebbe scritto se avesse mai visto una puntata di Che tempo che fa o di Otto e mezzo.

Non leggete Bernhard storicizzandolo, per salvare voi stessi, perché parla di noi, di tutti noi: l'Italia di oggi poi sembra ancora peggio dell'Austria di Bernhard, perché «che questo Paese si lasci scappare tutte le persone che valgono qualcosa, le butti fuori, addirittura le spinga a andarsene in altri continenti non lo capisco certo, naturalmente la situazione in cui versa questo Paese è la più spaventosa che si possa immaginare, la macchina del nostro Stato è manovrata da idioti inimmaginabili». I due fratelli del romanzo, Robert (che liquida la tenuta, in realtà liquidando l'intera nazione) e Karl se ne sono andati l'uno in America e l'altro in Africa perché, come dice il notaio incaricato della donazione, «qui non vi è stata data la possibilità di evolvervi». Siccome «molte cose, anzi, tutto è ridicolo in questo Paese, va riconosciuto naturalmente patetico, una commedia uno qui sa perfettamente che muore, che si spegne, che si è guastato e deve morire».

Non c'è libro di Bernhard che non sia un terribile j'accuse alla sua stessa nazione, ma non c'è alcun suo passaggio che si potrebbe citare senza suscitare, ancora oggi, la riprovazione di tutti, dai progressisti (troppo elitario) agli ambientalisti (la natura è orrore) ai religiosi («la sventura più grande è stata la Chiesa a introdurla nel mondo nel corso dei secoli, la Chiesa, nella quale, su e giù per interi secoli, è stato rappresentato sempre lo stesso dramma nocivo allo spirito») e che sopportiamo solo perché l'autore è morto, è ormai un classico, è Adelphi. Non c'è autore italiano che sopporterebbe un autore che scrivesse le cose che scriveva Bernhard dell'Austria, mentre qui ci stiamo struggendo dell'esclusione dell'ultimo romanzo di Teresa Ciabatti, con cinquine che servono solo a battersi il cinque tra colleghi innocui come omogenizzati, mentre Simonetta Sciandivasci scrive «che Teresa Ciabatti non sia in cinquina è fuori dalla grazia di Dio, un mistero italiano», un mistero italiano sì, perché qui scrivono per farsi dare i premi, mica pubblicano opere, pubblicano pere, quando, come scriveva proprio Bernhard: «ricevere un premio è come farsi cagare in testa».

D'altra parte quella di Bernhard, espressa anche qui, in Ungenach, non è un'idea democratica, non solo in letteratura, ma perfino in politica, perché «la democrazia, in cui il più grande cretino ha lo stesso diritto di voto e lo stesso peso di voto del genio, è una follia». Lo scrissi anche io qualche anno fa in Scemocrazia, edito da Bompiani (anzi da Antonio Franchini, perché senza Antonio Franchini e Elisabetta Sgarbi in vent'anni non avrei mai avuto grandi editori, mentre tra cinquant'anni sarò tutto Adelphi pure io), senza aver letto questo passaggio del mio parente Bernhard, proponendo una patente di voto, ma mi dettero tutti del fascista, perché la meritocrazia qui è fascismo, ma senza dimenticare, come scrive Bernhard, che «comunismo e socialismo non sono altro che micidiali depressioni mondiali, perversioni mondiali ma l'ondata della depressione mondiale e l'ondata della perversione mondiale devono passare sopra di noi passare sopra ogni cosa». Non ditemi che è fascista pure Bernhard (ma in effetti non l'ho mai sentito citare da nessuno di sinistra se non per disinnescarlo, e d'altra parte la stessa Adelphi nacque per pubblicare Nietzsche, che per Einaudi era nazista).

Non c'era ancora internet, non c'erano i social, non c'erano i talk show di opinionisti tuttologi che abbiamo noi, eppure fin da allora il nemico era la stupidità, perché «la stupidità, come stiamo vedendo di nuovo adesso, ha pur sempre i mezzi, vale a dire la forza, di estinguere e di annientare tutto quello che non è altrettanto stupido». Figuriamoci con i mezzi di oggi.

In fondo io stesso, anche qui, ma penso molti di voi, si ritroveranno nella condizione della voce di Bernhard, in cui «le circostanze fanno sì che in poco tempo io non sarò più capace di leggere nulla, di annotare nulla, di prendere nulla per vero».

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