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Altro che inclusiva: la categoria "aperta" è soltanto un ghetto per transgender

È palese che le atlete che hanno cambiato sesso non possano gareggiare con le altre, ma quella del nuoto è una finta svolta

Altro che inclusiva: la categoria "aperta" è soltanto un ghetto per transgender

Siamo alla solita toppa, peggiore del buco. La decisione della Fina, Federazione internazionale del nuoto, di creare una categoria aperta per atlete transgender (escluso chi abbia fatto transizione prima dei 12 anni) e cerca di risolvere un problema ormai diffuso nel mondo dello sport: l'equità competitiva fra queste atlete e quelle naturalmente femminili. Non si può farle gareggiare insieme perché il fisico maschile che era ed ora non è più comunque agevola. I romanticoni, un po' esploratori dell'ovvio, diranno: non esistono solo forza muscolare e resistenza, nello sport c'è talento, determinazione, gestione della gara. In certe discipline, soprattutto se determinate da tempi e misure, forza muscolare e resistenza contano più del resto: dunque poche storie.

Lo ha dimostrato Caster Semenya, ottocentista sudafricana che ha lottato per continuare a correre con le donne ed è stata riconosciuta donna pur con livelli di testosterone superiori alla media. Per questa ragione la federazione internazionale atletica ha deciso di escluderla da gare superiori ai 400 m e fino ai 1500 m. Altre atlete, Laurel Hubbard (sollevamento pesi) e la canadese Quinn, senza nome di battesimo (oro nel calcio), per la prima volta, a Tokyo 2021, hanno inserito le transgender nella storia dei Giochi. Recentemente l'americana Lia Thomas è stata la prima a vincere un titolo NCAA nei campionati universitari del nuoto. Invece in altri sport esiste un divieto di partecipazione. Il nuoto ha cercato di mediare e, dopo un consulto con una task force al lavoro da diversi mesi, composta da legali, endocrinologi, medici sportivi, ha varato la categoria aperta nel nome dell'inclusività ma ad evitare ingiusti vantaggi nelle gare femminili.

Una idea eticamente inclusiva (a nessuno è negato competere nello sport). Ma sportivamente esclusiva, come dir loro: questo è il vostro ghetto. Da qui non uscite. Ed anche peggio nella proposta agli spettatori: ecco, godetevi lo sport transgender. Forse non era questa l'idea, ma tradotta finisce così.

Lo sport si è inventato i giochi Paralimpici per aiutare chi non può gareggiare alla pari con i normodotati. Idea di successo che sta portando il Paralimpismo, dopo decenni e tanta fatica, su un altro livello. Idea eticamente inclusiva che rischiava di essere un palcoscenico per guardoni. E forse per qualche tempo lo è stato. Oggi, invece, ci offre valori fantastici e campioni nel senso completo della parola. Lo sarà anche per la categoria aperta avviata dal nuoto e forse da altri? Ovvero avremo campionesse mondiali della categoria aperta, campionesse olimpiche aperta, di tutto un po': sicuri che questo non sia il miglior metodo per un tiro al bersaglio? Direte: si può essere transgender senza fare sport a livello elite, chi sceglie di cambiare sesso non ignora sacrifici e rinunce a cui va incontro. Del resto una studiosa americana, Johanna Harper, medico e autrice di libri, ricorda che le transgender sono solitamente più alte, grosse e forti delle donne cisgender, quindi i vantaggi competitivi esistono. E non è neppur giustificato costringere atlete a competere dopo l'uso di medicinali che abbassino il livello di testosterone. Ora si dice che crolla un muro, si arriva allo sport senza discriminazioni. Forse un giorno sarà così.

Intanto questo campo aperto sembra il ghetto della solita ipocrisia.

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