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Il dribbling di Agnelli tra la vera vergogna e un paragone sbagliato

Più del campo, è il bilancio a essere inaccettabile. E quando tornò Lippi c'era una dirigenza solida

Il dribbling di Agnelli tra la vera vergogna e un paragone sbagliato

Vergogna. Un turbamento interiore manifestato da Andrea Agnelli dopo la sconfitta, l'ultima di una serie. Vergogna per avere perso a Tel Aviv dopo aver perso a Monza, dopo aver perso con il Benfica, con il Milan, con il Paris St. Germain. C'è un'altra vergogna, più profonda e disonorevole, quella di un bilancio finanziario mai raggiunto dalla Juventus in centoventicinque anni, di cui novantanove ad oggi gestiti dalla stessa famiglia. Però questa mortificazione non è risultata tra le parole di repertorio dopo il risultato di champions league. Nessun accenno alle proprie responsabilità, ai propri errori ma l'astuzia palabratica di distribuire fra tutti le colpe e dunque di legittimarsi, di difendere se stesso facendo finta di difendere Allegri e il club e la squadra. Se è stato finalmente opportuno che Andrea Agnelli si sia appalesato, dopo un lungo e ingiustificabile autolockdown, non sono state opportune le sue tesi a difesa di ciò che è indifendibile, con la consueta presunzione di essere diversi dal resto del mondo, respingendo, con tono stizzito e irriguardoso, la domanda chiara dell'unico giornalista, Paolo Condò, presente in studio. È facile ammettere l'errore di un arbitro, è assai difficile riconoscere il proprio peccato, di un calciatore, di un allenatore, di un dirigente, di un giornalista, se ci occupiamo di calcio.

Questa Juventus ha un passato certo, definito, grandioso ma il suo presente è critico, il suo futuro è incerto e non dipende esclusivamente da Massimiliano Allegri, il cui contratto quadriennale è stato voluto fortissimamente dal presidente con il sogno di forgiare un nuovo Alex Ferguson. Il ritorno del tecnico livornese è stato un errore, Agnelli ha citato l'esempio di Marcello Lippi ma si è dimenticato di ricordare chi ci fosse alle spalle del campione del mondo, dunque Umberto Agnelli, Antonio Giraudo e Luciano Moggi, una solidità professionale e una competenza calcistica di cui nessuno, degli attuali componenti la dirigenza bianconera, dispone. Fino alla prossima estate non ci saranno rivoluzioni, esaurita la stagione, concluse le celebrazioni del centenario della famiglia, si dovrà svoltare con una nuova rosa, in campo e in società, dopo l'ennesimo rifinanziamento.

Oggi non ci sono soluzioni idonee a cambiare lo stato delle cose, il totoallenatore è un giochetto per cronisti e tifosi, se proprio dovessi indicare un cognome direi che la Juventus non abbisogni di un allenatore ma di un capo, di un direttore tecnico, in breve di una figura di assoluta perizia e carisma e personalità, che sappia imporrsi su uno spogliatoio di privilegiati, fake players, sfiduciati e male allenati: l'identikit porta a un solo uomo, Fabio Capello che però ha un peccato originale, faceva parte della Juventus cancellata, negli uomini e nella storia, non soltanto dal tribunale di calciopoli ma dagli stessi famigliari bianconeri. Non avverrà, perché in fondo, riascoltando le parole del presidente, non è successo nulla, gli ottanta dipendenti della ditta sono pronti e compatti per ricostruire una Juventus vincente già da subito. A partire da sabato con il Toro, detto con eleganza da alcuni del clan bianconero, la Vacca. L'ultima farsa è stata realizzata ieri, il ritiro posticipato di un giorno.

Coperti di ridicolo.

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